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John Mellencamp
Strictly A One-Eyed Jack
[Republic/ Universal 2022]

Sulla rete: mellencamp.com

File Under: time slips away


di Fabio Cerbone (24/01/2022)

Diciamo la verità: chi avrebbe scommesso su questo finale di partita per John Mellencamp? Il piccolo stizzoso rocker dell’Indiana aveva conservato per molto tempo l’immagine (e il suono) di quell’America proletaria del Midwest, che trovava nelle sue canzoni, e nelle conseguenti battaglie, dal Farm Aid in poi, il riflesso di una resistenza e di un orgoglio a suon di chitarre. Heartland rock, si diceva, con una certa dose di romanticismo e retorica. Eppure, i segnali di un’anima più combattuta, di una profondità dell’uomo e dell’artista c’erano sempre stati: potremmo persino scomodare la poetica famigliare di un album come Big Daddy, che spiazzò parecchi all’epoca, o certi lavori “di passaggio” (gli scarti di Rough Harvest, le cover di Trouble No More) che adesso sembrano segnali premonitori; di certo non dovremmo ribadire gli ultimi quindici anni di carriera, con un progressivo avvicinamento all’essenzialità dei linguaggi del folk e del blues, un suono più asciutto e una dimensione da storyteller che lo ha fatto accostare più a Woody Guthrie (e anche al vecchio amico John Prine, magari passando per Bob Dylan) che agli Stones o James Brown dei suoi esordi.

Strictly A One-Eyed Jack arriva al culmine di questo “invecchiamento” consapevole, si fonda sulle conquiste, liriche e sonore, di album quali Life, Death, Love and Freedom (con il senno di poi, l’album della svolta nell’età adulta) e Plain Spoken, e trova la chiave giusta per l'uniformità tematica di dodici canzoni che riflettono una volta di più sul trascorrere inesorabile del tempo, sulla morte, sulle menzogne che sembrano guidare il mondo, anzi meglio, noi stessi. Sono i primi versi di I Always Lie to Strangers a stabilirlo e tutto discende di conseguenza, con un trittico iniziale che nel dondolio folk e nella melodia un po’ retro di Driving in the Rain o negli stridori blues di I Am a Man that Worries dipana il tono musicale che andrà per la maggiore: il violino della fedele Miriam Sturm, il piano e l’accordion di Troye Kinnett, persino una tromba (Joey Tartell) jazzy ed elegante nella ballad da ore tarde di Gone Too Soon, degna di un Tom Waits da “saturday night”, brano che insieme al finale da autunno della vita di una commovente A Life Full of Rain detta il passo della disillusione e della diffidenza che emergono prepotentemente in Strictly A One-Eyed Jack.

Non è un disco facile, per nulla, e John Mellencamp conferma di fregarsene delle conseguenze: “non sono per tutti”, afferma, e se non ora quando potrà permettersi di presentarsi così, nudo, con le sue dure verità, che sembrano piuttosto un’accettazione di sé che non una semplice nostalgia senile. Quest’ultima forse sfugge di mano proprio in Wasted Days, quel duetto con l’amico ritrovato Bruce Springsteen che ha fatto da traino al disco: un incontro che da tempo era nelle corde dei personaggi, adesso più che mai visti gli argomenti crepuscolari che li legano, nonostante l’esito musicale non sia neppure tra i più interessanti nella scaletta (insieme alla luce speranzosa di Chasing Rainbows, un po’ convenzionale per melodia e arrangiamento).

C’è semmai da struggersi fra le movenze scure di Sweet Honey Brown, aguzza al punto giusto nel dialogo tra violino, organo e chitarre elettriche (il sempre devoto Andy York), nell’addolorato canto acustico di Streets of Galilee, oppure ancora nella stessa Simply One-Eyed Jack, testo complesso ed enigmatico rispetto al resto del disco, una danza folk che è la quintessenza di alcune sonorità costruite da Mellencamp con la band in questi anni. Paradossalmente sono i momenti di tenuta rock (Did You Say Such a Thing, dove appare ancora Springsteen in una cruda stilettata solista alla Telecaster, la classica Lie to Me) quelli che suonano meno invischiati nella scarna visione d’insieme del disco, sebbene aiutino a spezzare un’atmosfera altrimenti gravosa da reggere.

A fare da collante però ci pensa non solo la corposità “pesante” e schietta delle parole, ma anche la voce di John Melllencamp, che sembra davvero non fare prigionieri: i toni bassi, increspati e rauchi - effetti di quel fumo che prima o poi lo ucciderà, dice lui cocciuto, per nulla intenzionato a smettere - sono quelli di un vecchio bluesman che ha visto e vissuto molte cose, inciampi e abbagli dell’esistenza compresi.


    



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