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Arlo McKinley
This Mess We're In
[Oh Boy/ Goodfellas 2022]

Sulla rete: arlomckinley.com

File Under: Real country dark


di Gianfranco Callieri (02/08/2022)

Erano i primi anni del secolo scorso quando il sociologo tedesco Max Weber, perplesso di fronte a una modernità che percepiva come snaturata e disumanizzata dalla cosiddetta "razionalità strumentale" (ossia l’uso della ragione finalizzato non più al servirsi della natura ma a esercitare il proprio dominio su altri esseri umani), si mise a teorizzare il "disincanto del mondo", la delusione di fronte a un’idea del progresso in procinto di sovrapporsi a un puro istinto di sopraffazione. This Mess We’re In, opera terza di Arlo McKinley da Cincinnati, Ohio, l’ultimo artista essere scritturato dalla Oh Boy di John Prine e di suo figlio Jody Whelan prima della morte dell’autore di Sam Stone, sembra vivere lo stesso disincanto, non più weberiano, in questo caso, bensì derivante da una profonda malinconia del presente, dalla consapevolezza di vivere tra un passato in qualche modo negato (perché ai marginali, agli irregolari, ai poveri e agli sbandati è oggi preclusa la promessa di felicità e realizzazione personale dell’America) e un futuro che non c’è, o al limite può essere inventato e annunciato soltanto come catastrofe.

Da qui il carattere il carattere luttuoso, di decadenza psicologica e morale, riscontrabile tra le undici canzoni di This Mess We’re In, non a caso elaborato dopo la morte della madre e del miglior amico del suo artefice (nel frattempo testimone del soccombere di molti altri conoscenti a forme più o meno severe di tossicodipendenza) e quindi concepito anche in forma di terapia, di ponte verso il domani tramite cui superare (si spera indenni) le inevitabili sofferenze della vita di tutti i giorni. Più originale e meno countreggiante del comunque ottimo predecessore (Die Midwestern di due stagioni or sono, anch’esso un ritorno alle radici d’una comunità rurale tutta da ricostruire), l’album finisce così per assomigliare a una traduzione appena più gentile della media dei temi e del linguaggio di Ian Noe, molto vicino a McKinley per la sensibilità e il realismo coi quali descrive una heartland vista alla stregua di un paesaggio in rovina, retaggio di dolore e ferite ancora aperte: se però il primo insiste sull’asciuttezza, facendo coincidere l’essenzialità del proprio vocabolario folk con lo spirito tagliente di canzoni e narrazioni, il secondo cerca invece una dialettica con rock e country in grado di ammorbidire, per lo meno a tratti, il peso della sconfitta quotidiana altrimenti serpeggiante in ogni brano.

Nascono così pezzi magari meno significativi di altri, per esempio due capitoli all’insegna del puro rock & roll quali To Die For e Rushintherug, in ogni caso interpretati con classe infinita da un gruppo di musicisti dove spicca l’intreccio tra le chitarre a spina staccata di Matt Ross-Spang (anche produttore) e quelle elettriche dell’ottimo Will Sexton (fratello del texano Charlie), senza dimenticare le bacchette precise e volutamente anti-spettacolari di Ken Coomer (qualcuno lo ricorderà nelle fila dei primi Wilco); pezzi meno significativi, si diceva, ma non per questo poco riusciti, e soprattutto necessari, come il country-rock della coinvolgente Back Home (in duetto con l’astro nascente appalachiano Logan Halstead), alla creazione di un’alternanza emotiva con la dimensione cupa e sconsolata della pur bellissima Stealing Dark From The Night Sky, dolente ruminazione folkie sull’insediarsi della depressione all’interno di un animo umiliato, con l’angosciato riff acustico che introduce la parimenti bellissima Dancing Days prima della trasformazione in ballata rock o con gli umori decisamente alla John Prine, quindi di ottimismo dolceamaro, di City Lights. In I Wish I si respira un soffio di gospel e in Where You Want Me l’ampiezza del miglior rock delle radici, mentre l’ultima Here’s To The Dying, con le sue sventagliate di organo e Wurlitzer (entrambi affidati alle mani sapienti del veterano Rick Steff), avrebbe fatto felice il Jackson Browne confessionale dei ’70.

Arruolato nel coro della parrocchia battista frequentata dai suoi familiari all’età di otto anni, Arlo McKinley è uno dei tanti figli del Midwest che hanno visto andare in pezzi il tessuto sociale faticosamente costruito, intorno a loro, da genitori e altri membri delle (piccole) comunità della provincia, trovandosi a vivere, oggi, in un sentimento permanente di abbandono. Eppure, se il dolore della perdita può avere un effetto trasformatore, se la malinconia può diventare un’incitazione all’impegno verso gli altri fino a ricostruire una nuova connessione sociale, allora, di questo cambiamento, abbiamo già cantore e colonna sonora: si chiamano, rispettivamente, Arlo McKinley e This Mess We’re In.


    


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