Ci ha messo letteralmente
una vita Jerry Joseph a ritagliarsi il suo posticino al sole. Una
giovinezza trascorsa a combattere la propria irrequietudine, a “disciplinare”
il suo spirito anarchico, a disegnare ed attuare una strategia di fuga
atta ad assecondare il suo talento musicale. Un lunghissimo viaggio che,
dalla natia California, lo ha portato in ogni angolo del pianeta, mettendolo
in contatto con musicisti di straordinario livello (Vic Chessnut, Chuck
Leavell, Randall Bramblett, David Lindley, Dave Schools, solo per citarne
qualcuno), dei quali si è guadagnato negli anni la massima stima e mettendo
a punto, sotto diverse sigle, una tanto corposa quanto interessante produzione
discografica. A fronte di tutto ciò però, senza girarci troppo intorno,
non ci fosse stato l’incontro con Patterson Hood, probabilmente
avrebbe continuato, alla tenera età di 61 anni, a rimanere uno dei migliori
semi-sconosciuti musicisti della scena Americana.
Sulla scia del precedente The
Beautiful Madness, questo Tick raccoglie il materiale
avanzato dal precedente progetto e consegna qualche versione live dei
brani già editi. Gli Stiff Boys altri non sono che i Drive-By Truckers,
già coinvolti nel tour promozionale dell’album del 2020. Insomma, il piano
sembra essere quello di cavalcare l’onda lunga generata dall’ultimo sforzo
discografico. Ovviamente il meno che ci si possa attendere in casi simili,
è quello di ritrovarsi tra le mani del materiale di scarto, disomogeneo
e neppure troppo curato, roba presumibilmente di pertinenza esclusiva
di fans ed affini. Tutto corretto, tutto prevedibile non fosse che i cinque
pezzi inediti, a cominciare dalla minimale title track, possono sembrare
tante cose, meno che dei bozzetti strampalati, ricomposti alla meno peggio.
Una canzone come Sometimes a Great Nation
sarà anche una demo ma suona alla grande ed ha forza degli anthem, così
come South of South che, manco a dirlo, profuma deliziosamente
di sud e si spinge in un progressivo effluvio di elettricità e parole.
E se The Mountain suona un po' banale, penalizzata da arrangiamenti
enfatici e freddini, Quiet è una ballata
riflessiva che arriva al traguardo senza perdere in intensità, perfetta
introduzione della seconda parte della raccolta, riservata agli estratti
live dal Dial Black Sound Recording Studio di Matt Patton in Mississippi
e da quello casalingo di Stephen Drizos (Jackmormons), si passa così al
palco del 40 Watt Club di Athens, messo a ferro a fuoco da Jerry e dalla
band di Patterson.
Dal vivo i due fanno faville, le loro chitarre spadroneggiano anche se
è la voce debordante del frontman a sparare ad altezza uomo. Cosa dire,
un concentrato di roots rock stradaiolo senza fronzoli, diretto, saturo
e fortemente energizzante, che si contrappone all’altra anima del disco,
come già visto, meno selvaggia, più sobria, quasi accademica. Belle entrambe,
tra di loro funzionali e complementari, due facce, dai riflessi alternati,
sostanzialmente della stessa medaglia. Certo, non c’è e non può esserci
una linea univoca ma, tutto sommato, ciò non può annoverarsi tra i difetti
dell’album, almeno non quanto l’assenza di una valida ricerca sonora.
Vizio questo che investe le tracce in studio ma di cui, al contrario,
non sono certo affetti i pezzi del vivo, ruvidi, coerenti ed essenziali
come da protocollo, indiscutibili paradigmi della maturità artistica raggiunta
da questo ennesimo valoroso interprete dei più autentici valori della
provincia americana.