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Neil Young & Crazy Horse
Barn
[Reprise/ Warner 2021]

Sulla rete: neilyoungarchives.com

File Under: rockin' from the barn


di Fabio Cerbone (22/10/2021)

Che sia un vecchio fienile rimesso a nuovo nel mezzo dei grandi orizzonti delle Rocky Mountains in Colorado (come effettivamente è accaduto per questo disco e testimoniato dal relativo documentario, curato da Daryl Hannah, che lo accompagna), oppure un granaio nel cuore del proprio ranch in California (come avvenne al Broken Arrow, quando Zuma a Ragged Glory scrissero la storia), al centro sembra stazionare immutabile quella formula chimico/ sonora, mai replicata da altri, che Neil Young ha stabilito insieme ai Crazy Horse.

Ciò che è cambiato rispetto ai capolavori riconosciuti del passato è il tempo, che scorre implacabile per tutti e non è “sempre dalla nostra parte”, come cantava qualcuno, quaranta e passa dischi sulle spalle e un gruppo che ha ripensato il suo assetto, salutando il vecchio compadre Frank 'Poncho' Sampedro e richiamando un amico di antiche scorribande come Nils Lofgren. In apparenza un innocuo scambio, che tuttavia già dal precedente Colorado evidenziava qualche dinamica da assestare e un’alchimia che per i Crazy Horse e lo stesso Neil Young li costringeva ad essere meno affamati e “urgenti”, in cerca di una tensione perduta. Barn non risolve certo la questione, ma mostra un’intesa più esplicita, una macchina rock più oliata, alla quale forse occorrerebbe più dedizione negli arrangiamenti e nello sviluppo di melodie che spesso appaiono come prove, o peggio tentativi lasciati sfumare.

Siamo dunque ancora qui a raccontare quel “buona la prima” che Neil Young si ostina a perseguire con i suoi compagni: Ralph Molina e Billy Talbot dettano l’incedere erratico che ha fatto la fortuna della band, Lofgren puntella con la ritmica e persino con qualche nota di accordion e piano, ma si tiene un passo indietro, mentre Neil fa semplicemente Neil, rivoltando in maniera maniacale gli stessi accordi, pungendo con qualche scarica statica all’inseparabile Gibson e soffiando indolenti note di armonica. Spunta un disco che alterna dimesse ballate acustiche da portico (che pescano nelle romanticherie dei rapporti personali in Song of the Seasons e Tumblin’ Through the Years) e galoppate elettriche che vorrebbero essere nuovi inni (Human Race, la presa politica e privata al tempo stesso di Canerican), dolci vagabondaggi folk (l’erratica They Might Be Lost, che con la sua immalinconita fragilità pare sbucare dalle outtakes di Sleeps With Anagels) e momenti di precario rock (Headin’ West).

Strada facendo Barn si accomoda così una volta di più tra quelle opere minori dettate dal verbo Crazy Horse, un album abbandonato là, da qualche parte tra l’impegno ecologista di Greendale (che qui sovviene di tanto in tanto nelle liriche) e l’irruenza di un misconosciuto Broken Arrow, come capitava di sottolineare anche in occasione del precedente Colorado, magari risalendo la corrente dell’arruffata bellezza country rock di American Stars 'n Bars o Zuma (solo una scintilla negli otto minuti di Welcome Back). Don’t Forget Love ci ammansisce con un messaggio di umana speranza nel finale, provando a ricreare l’innocenza magica delle voci sottili di Neil e dei suoi inseparabili compagni di strada: è un messaggio semplice quanto la melodia elementare che accenna, una buona istantanea di un disco "fatto in casa", qualche volta fino a sfiorare l'irritazione, e che sembra registrato soprattutto per tenere vivi se stessi e il sogno di un “guerriero hippie”.


    



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