Che sia un vecchio fienile
rimesso a nuovo nel mezzo dei grandi orizzonti delle Rocky Mountains in
Colorado (come effettivamente è accaduto per questo disco e testimoniato
dal relativo documentario, curato da Daryl Hannah, che lo accompagna),
oppure un granaio nel cuore del proprio ranch in California (come avvenne
al Broken Arrow, quando Zuma a Ragged Glory scrissero la
storia), al centro sembra stazionare immutabile quella formula chimico/
sonora, mai replicata da altri, che Neil Young ha stabilito insieme
ai Crazy Horse.
Ciò che è cambiato rispetto ai capolavori riconosciuti del passato è il
tempo, che scorre implacabile per tutti e non è “sempre dalla nostra parte”,
come cantava qualcuno, quaranta e passa dischi sulle spalle e un gruppo
che ha ripensato il suo assetto, salutando il vecchio compadre Frank 'Poncho'
Sampedro e richiamando un amico di antiche scorribande come Nils Lofgren.
In apparenza un innocuo scambio, che tuttavia già dal precedente Colorado
evidenziava qualche dinamica da assestare e un’alchimia che per i Crazy
Horse e lo stesso Neil Young li costringeva ad essere meno affamati e
“urgenti”, in cerca di una tensione perduta. Barn non risolve
certo la questione, ma mostra un’intesa più esplicita, una macchina
rock più oliata, alla quale forse occorrerebbe più dedizione negli arrangiamenti
e nello sviluppo di melodie che spesso appaiono come prove, o peggio tentativi
lasciati sfumare.
Siamo dunque ancora qui a raccontare quel “buona la prima” che Neil Young
si ostina a perseguire con i suoi compagni: Ralph Molina e Billy Talbot
dettano l’incedere erratico che ha fatto la fortuna della band, Lofgren
puntella con la ritmica e persino con qualche nota di accordion e piano,
ma si tiene un passo indietro, mentre Neil fa semplicemente Neil, rivoltando
in maniera maniacale gli stessi accordi, pungendo con qualche scarica
statica all’inseparabile Gibson e soffiando indolenti note di armonica.
Spunta un disco che alterna dimesse ballate acustiche da portico (che
pescano nelle romanticherie dei rapporti personali in Song
of the Seasons e Tumblin’ Through the Years) e galoppate
elettriche che vorrebbero essere nuovi inni (Human
Race, la presa politica e privata al tempo stesso di Canerican),
dolci vagabondaggi folk (l’erratica They Might Be Lost, che con
la sua immalinconita fragilità pare sbucare dalle outtakes di Sleeps
With Anagels) e momenti di precario rock (Headin’ West).
Strada facendo Barn si accomoda così una volta di più tra quelle
opere minori dettate dal verbo Crazy Horse, un album abbandonato là, da
qualche parte tra l’impegno ecologista di Greendale (che qui sovviene
di tanto in tanto nelle liriche) e l’irruenza di un misconosciuto Broken
Arrow, come capitava di sottolineare anche in occasione del precedente
Colorado, magari risalendo la corrente dell’arruffata bellezza
country rock di American Stars 'n Bars o Zuma (solo una
scintilla negli otto minuti di Welcome Back).
Don’t Forget Love ci ammansisce con un messaggio di umana speranza
nel finale, provando a ricreare l’innocenza magica delle voci sottili
di Neil e dei suoi inseparabili compagni di strada: è un messaggio semplice
quanto la melodia elementare che accenna, una buona istantanea di un disco
"fatto in casa", qualche volta fino a sfiorare l'irritazione,
e che sembra registrato soprattutto per tenere vivi se stessi e il sogno
di un “guerriero hippie”.