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Nick Cave & Warren Ellis
Carnage
[Awal-Bad Seed Ltd 2021]

Sulla rete: nickcave.com

File Under: soul bleeding


di Domenico Grio (24/03/2021)

* Uscita digitale 25 febbraio 2021, in cd/ vinile dal 28 maggio 2021

C’è stato un tempo in cui qualcuno ha pensato che Re Inchiostro stesse pian piano lasciando il campo ad un signore di mezz’età che aveva deciso di passare il resto dei suoi giorni a ricordare di essere sopravvissuto a sé stesso, piuttosto che affrontare davvero nuove audaci contese con gli spiriti del regno degli inferi. Lo stacco tra Nick the Stripper e il Cave “normalizzato” di Brighton, in abito scuro e ventiquattrore, che andava a letto presto e la mattina aveva un cartellino da timbrare e delle pagine da riempire, era troppo grande per dirimere le ansie di generazioni di adepti, troppo legati alla figura del cantore maledetto, per accettare una versione docile e “diversamente” poetica di un artista ripulito dalle perverse istanze autodistruttive del suo personaggio giovanile.

Alla morte del figlioletto, avvenuta improvvisamente nell’estate del 2015, tutte queste elucubrazioni intellettualoidi, hanno però dovuto cedere il passo al timore, questo sì concreto, di veder ripiombare Nick Cave nell’oscurità della sua ancestrale dannazione. Avrà attinto a tutte le proprie risorse per credere possibile un nuovo tempo, per metabolizzare gli eventi ma alla fine ce l’ha fatta a riemergere, a dare forma e parole al suo infinito dolore, ad intrecciare nelle sue narrazioni, con lucida mestizia e bellezza inusitata, ancora una volta l’amore e la morte. Carnage è il secondo inaspettato capitolo della resurrezione e se Ghosteen era l’album della rivelazione, della preghiera e della catarsi, quest’ultimo disco rappresenta in qualche modo il primo passo verso la liberazione, il ritorno al mondo dei vivi, crudo, esplicito, soffocante ma anche mistico, tremante, sognante, in cui si alternano l’angoscia per le scelte sbagliate, alla speranza di quiete e di perdono, alla sete di giustizia, alla voglia di eterno.

Rimette i panni del predicatore Nick, ma sembra aver acquisito una consapevolezza diversa, un’idea dell’ultraterreno quasi plastica, a margine di un mondo che si divide sempre tra bene e male, tra violenza e dolcezza, tra Vecchio e Nuovo Testamento. Le parole non piovono più come pietre ma scorrono come immagini, flussi di pensieri, urla o carezze, colpiscono sempre forte ma senza uccidere. È evidente che la linea è tracciata e che al Nick Cave ipnotico, teatrale ed autoreferenziale, si stia affiancando un altro Nick Cave a forti tinte autobiografiche, malinconico e sofferente come sempre ma struggente e a nudo come mai prima. Carnage si apre con Hand of God e capiamo subito perché la seconda firma del disco sia quella di Warren Ellis. È questi la mente con la visione più scenografica, orchestrale persino tribale, in grado anche di attingere la giusta tensione da suoni industriali e tecnologici, senza sfaldare il tessuto tradizionale su cui si impiantano i brani. A ruota arriva Old Time, altra meraviglia sonica che continua a galleggiare tra voodoo e sacralità immanente. Una linea di basso circolare che apre varchi temporali ed archi lancinanti che increspano la superficie.

La morriconiana title track, Albuquerque e Shattered Ground sono invece ennesime rivisitazioni del proprio lutto, in perfetta continuità con i vaporosi ed elegiaci filamenti di Ghoststeen, mentre White Elephant è un gospel duro ed irrituale che sembra alludere all’imminente fine del mondo. In Lavander Fields Nick cede invece al misticismo ecclesiastico, ripete ossessivamente “there is a kingdom” e traccia la sua via per i campi celesti, salvo poi dover fare i conti con la sua fragile e persistente condizione terrena, di uomo che vive su un balcone (Balcony Man), “dove tutto è ordinario finchè non lo è”, dove tutto è visibile finchè non sparisce, dove “tutto quello che non ti uccide ti rende pazzo”.

“Disco brutale ma molto bello, annidato in una catastrofe globale”, così lo definisce la nota stampa e lo è in quanto ferocemente sincero, di un lirismo unico, esemplare, ben al di fuori da un concetto ordinario di songwriting, oltre i canoni classici dai quali pure attinge, assurto ora a paradigma di una sorta di realismo estatico che soverchia testi e musica. Nick Cave, come Robert Johnson o Johnny Cash, si racconta e ci racconta, si eleva e ci eleva dalla mediocrità dei suoi tempi e soprattutto scrive canzoni che fanno sanguinare l’anima.


    



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