Uno scatto di copertina che riflette l’anima metropolitana
di Willie Nile, da sempre legato alle streets of fire newyorkesi,
lui che di questa immensa città è figlio adottivo (dalla nativa Buffalo)
ormai da una vita intera. Si presenta così il tredicesimo album di studio
dell’ultimo dei romantici rocker rimasti in circolazione, sempre generoso
ogni volta che siamo chiamati a sottolineare una sua nuova prova discografica.
Con i pregi e i difetti già riscontrati nelle uscite più recenti - quella
prolificità che ha letteralmente travolto Nile a partire dagli anni 2000
e che sembra averlo ripagato delle tante delusioni e dei numerosi bocconi
amari che ha dovuto ingoiare nel periodo precedente - New York at
Night suona adesso più che mai, e senza alcuna premeditazione
ma solo per un caso del destino, come una sorta di ode elettrica a una
città ferita.
Sono di questi mesi, infatti, le notizie di un’epidemia che qui più che
altrove negli States ha colpito duro, mettendo innanzi tutto in discussione
proprio il modello di socialità che New York ha sempre rappresentato,
aperta alle diversità, ai contributi dei suoi immigrati, in definitiva
al mondo intero. Nile ha inciso il disco ben prima che l’uragano dei contagi
si abbattesse come una scure su New York, ma ciò non sposta il liberatorio
e sentimentale omaggio che ha voluto idealmente dedicarle, costruendo
una sequenza di personaggi e canzoni che ne esaltano lo spirito. Lo ha
fatto seguendo le linee di quel rock un po’ garagista e da custode del
timbro punk urbano che muove la sua recente produzione, a volte azzeccando
il ritornello malizioso e facile, altre inseguendo un riff plateale. Complici
sono i musicisti di cui si è servito in tempi recenti, con l’amico polistrumentista
Steuart Smith, il basso di Johnny Pisano, la batteria di Jon Weber e le
chitarre di Matt Hogan e Jimi K. Bones, tutti al servizio di una musica
diretta nella sua innocenza rock, che parte dal galoppo di New
York is Rockin’, attraversa il beat di The Backstreet Slide
e approda a quell’effetto corale e da inno elettrico (Lost and Lonely
World, la stessa New York at Night, il finale liberatorio con
Run Free) che fa di Willie Nile una sorta di fratello maggiore
e di guida spirituale per discepoli come Jesse Malin o Brian Fallon.
È una formula assodata che ha avuto il suo apice con Streets of New
York (ancora oggi indiscutibilmente uno dei suoi milgiori album in
carriera) e che adesso con New York at Night, non solo per la consonanza
del titolo, sembra conoscere un secondo atto. Con la differenza che le
canzoni appaiono un poco di seconda mano o forse soltanto più usurate
dal tempo: batte quell’heartland rock che si ruzzola per terra, tra l’irriverenza
dei suoi eroi Clash e New York Dolls (in The Fool Who Drank the Ocean
e Downtown Girl), prima che arrivi l’immancabile ballata pianistica,
tutta passione e sentimentalismo (The Last Time We Made Love) a
dirci che Willie Nile ci crede ancora e si spende per la causa. È impossibile
non volergli bene, e magari attenderlo con fiducia per il prossimo tour
(quando e se potremo viverlo con lo stesso contatto fisico di una volta...)
per cantare alcuni di questi semplici rock’n’roll insieme a lui, anche
quando la sceneggiatura comincia a ripetersi un po’ stancamente.