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Under: irish soul
di Fabio Cerbone (24/04/2019)
Messo in disparte il celtic
soul che accendeva gli arrangiamenti del precedente Between
Two Shores, rappresentazione dell’animo più nomade e romantico
di Glen Hansard, This Wild Willing si chiude a riccio sulla
vulnerabitlità dei sentimenti del musicista irlandese, risultando un album
meno immediato e soprattutto attraversato da melodie ombrose e qualche
sperimentazione un po’ fine a se stessa. A cedere è il cuore di quella
scrittura che rendeva Hansard un buon discepolo della “settimane astrali”
di Van Morrison in chiave folk moderna, a favore invece di suoni, collaborazioni,
stratagemmi sonori che non sempre aiutano il sonwgriting a uscire allo
scoperto.
Frutto di un soggiorno parigino, dove è stato registrato presso i Black
Box Studios insieme al produttore David Odlum, This Wild Willing
scava nei territori più privati dell’autore, ma non manca di lanciare
al mondo le sue invocazioni colme di speranza, giungendo alla fine di
questo percorso con la carezza acustica per chitarre e violino di Leave
A Light. Prima tuttavia il viaggio è stato tortuoso, a volte monotono
nelle tonalità scelte per esprimere l’intensità dei versi, dando l’impressione
di fermarsi a metà strada: insomma, Glen Hansard non appare ancora pronto
a mollare gli ormeggi verso una inesplorata ricerca musicale, indeciso
se restare attaccato alla matrice folk di partenza o farsi trascinare
dalle presenze dei fratelli Khoshravesh, musicisti di origine iraniana
conosciuti proprio a Parigi e coinvolti nella stesura disco, o dai connazionali
Deasy e Dunk Murphy (Sunken Foal), che “imbrattano” di pulsioni elettroniche
e passaggi modernisti diverse tracce di This Wild Willing.
I primi cinque episodi appaiono quelli più votati alla rottura: il loop
ritmico di I’ll Be You, Be Me segna
la cesura, Race to the Bottom e The Closing Door proseguono
sporcando di intenzioni vagamente world gli arrangiamenti, Don’t
Settle gonfia la melodia fino al parossismo, e Fool’s Game
sembra arrancare tra voci artefatte e una canzone folk aggiornata dalla
venuta di Bon Iver. Resta poco, compreso il canto sussurrato di Hansard,
più che mai incline all’intimità, e ad assecondare “frammenti musicali”,
come egli stesso li definisce, che dovrebbero condurlo da qualche parte,
spesso senza riuscirvi. Guarda caso, quando il tono si fa elegiaco e acustico,
diciamo pure tradizionalista, in Brother’s Keeper
torna la limpidezza della visione che Glen aveva saputo mostrare nei lavori
passati: è quello che in fondo gli viene meglio, mentre il piano di Ruth
O’Mahony Brady ricama libero e le band segue ordinatamente.
Mary e Threading Water tornano a fascinazioni orientaleggianti,
per fortuna con più efficacia nel dialogo fra gli strumenti, seppure cominci
a farsi notare uno dei problemi maggiori per la tenuta di This Wild Willing:
l’uniformità eccessiva e i rari cambi di passo sonoro. Ostacolo che diventa
insormontabile quando le varie Weight of the World, Who’s Gonna
Be Your Baby Now e Good Life Of Song sembrano letteralmente
sfaldarsi nelle loro esili armonie.