Bill Callahan
Shepherd in a Sheepskin Vest
[Drag City
2019]

dragcity.com

File Under: family man

di Nicola Gervasini (01/07/2019)

Se non piaceva ai fan il Dylan in versione papà bucolico del periodo a Woodstock (1967-1971 circa), il Lou Reed sposato dei primi anni 80 che cantava le gioie di una casa ben arredata e delle gite in moto alla domenica o la Patti Smith dedita a marito e figlio di Dream Of Life, potrà mai piacere il family-record di un autore che ha passato 25 anni buoni a professare l’arte del self-made record scritto in solitudine (e cantando di solitudine)? Ma prima o poi la vita privata entra sempre nell’opera di un artista, ancor più se sensibile e spesso autobiografico come Bill Callahan.

Dopo la copiosa epopea dietro la sigla Smog e quattro album a proprio nome, Bill si era preso una lunga pausa per dedicare anima e corpo alla famiglia, dopo aver dato alle stampe Dream River nel 2013. Ci sarebbero quindi tutte le premesse per aspettarsi poco fuoco da Shepherd In A Sheepskin Vest, “spataffiata” di 20 canzoni registrate quasi in solitaria (lo aiutano Matt Kinsey alla chitarra, il tuttofare Brian Beattie e Adam Jones alla batteria, con sporadici interventi della lap steel di Gary Newcomb e della voce della moglie Hanly Banks) nel corso di questi anni di ritiro d’amore, eppure qui accade un piccolo miracolo. Shepherd in a Sheepskin Vest infatti conserva tutta la tensione e l’oscuro fascino dei suoi predecessori, ed è significativo che pur essendo quasi un concept sull’amore coniugale e sulle gioie e preoccupazioni della paternità, si concluda con The Beast, un testo in cui Bill si immagina navigatore in partenza per liberare in mare la bestia rinchiusa nel proprio animo, un finale perfettamente in linea con il suo abituale stile lirico, ma che lascia un’ombra inquietante sul disco dopo tanti inni alla nuova vita.

Prima comunque aveva già trovato un perfetto equilibrio tra la sua ispirazione, nata come espressione di solitudine e depressione, e quella sensazione di essere arrivati finalmente a qualcosa di concreto che innegabilmente ti regala la paternità. Siamo dunque lontani dal Nick Cave tutto casa-studio di registrazione che partorì in situazione analoga il doppio Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus, perché là dove Cave operò una normalizzazione e una perfetta quadratura del suo stile (regalando infatti un disco che aveva il paradossale difetto di essere, appunto, troppo perfettino e studiato, come un “buon padre di famiglia” si sente in dovere di essere), qui Callahan dimostra che tra un pannolino e l’altro, il tempo per la scrittura di canzoni ha seguito le sue solite logiche creative.

Cambiano i temi, ma non cambia lo spirito insomma, che anzi riesce in 20 brani a trovare un punto di arrivo al percorso intrapreso a proprio nome nel 2007. Non possiamo parlarvi di tutti i brani, che vanno ascoltati con testi alla mano, ma sicuramente vanno citate Writing (con un testo della serie “va bene il realizzarsi nella famiglia, ma io sono quello che scrivo”) e una lunga serie di liriche che proseguono sull’immagine dell’uomo di mare per descrivere la nuova condizione di padre (Black Dog On The Beach, Son Of The Sea, Tugboats and Tumbleweeds). Ma alla fine, scoprire che è da uno come Callahan che riceviamo una delle più poetiche ed emozionanti wedding-song di sempre (Watch Me Get Married), ci fa rendere conto di quanto sia ancora oggi uno degli autori più importanti della nostra musica.


    


<Credits>