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synth-americana di
Fabio Cerbone (23/03/2018)
In
quindici anni abbondanti di storia artistica, i Decemberists non sono stati
nuovi a cambi di rotta repentini: pur restando fedeli alla sceneggiatura principale
di Colin Meloy, voce, autore e condottiero della band, di volta in volta hanno
provato a estendere le basi di partenza della loro scrittura, quel folk rock dall'andatura
tradizionale e dalla melodia pop facile che li ha resi tra le espressioni più
interessanti della musica americana del nuovo millennio. Nel canovaccio musicale
della formazione di Portland sono comparse derive prog nel controverso The Hazards
of Love (2009) e autentici innamoramenti per il suono delle radici nel fortunato
The King Is Dead (2011), senza dimenticare gli esordi più indipendenti, fino a
trovare una sorta di sintesi e maturità con la pubblicazione di What
a Terrible World, What a Beautiful World.
Che non fosse facile
ripartire da quell'album, raggiungendo nuovi traguardi e inediti stimoli, era
da mettere in conto, ma che tale svolta potesse essere rappresentata dal suono
ibrido, disorganico e velleitario del qui presente I'll Be Your Girl
non lo avremmo certo immaginato. La via di uscita dall'impasse creativo per i
Decemberists è simboleggiata dalla scelta di farsi produrre da John Congleton
(Xiu Xiu, St. Vincent, Future Islands fra i tanti), elemento in partenza estraneo
alla loro storia sonora, mettendosi in gioco con coraggio. L'errore tuttavia è
stato quello di credere che qualche colpo di sintetizzatore, ritmi vagamente imparentati
con la new wave dei primi ottanta e dichiarazioni improvvide di Colin Meloy di
ispirarsi a Depeche Mode e New Order potessero risciacquare i panni della band
e fornirle nuova linfa. Non è tanto una mera questione di suoni, che pure non
rappresentano affatto questa grande novità in fatto di revival, quanto di un matrimonio
non riuscito tra passato e presente: l'agrodolce malinconia acustica che apre
Once in My Life è ancora farina del sacco
dei Decemberists, alla quale però vengono letteralmente appiccicate tastiere e
movenze pop ripescate dagli anni Ottanta dei Simple Minds (altro che Depeche Mode…)
che hanno un sapore alquanto posticcio.
E così perserverano nel discorso
Cutting Stone e Severed (il singolo
che ha annunciato il "tradimento"), tentativi goffi di svecchiare una formula
che sotto sotto è sempre la stessa. La scrittura di Meloy resta letteraria e forbita,
il gruppo pesca ancora a piene mani dal linguaggio del folk, solo sperimenta a
più riprese una serie di innesti che appaiono inconcludenti. Ne soffrono le canzoni
stesse, le quali, sostenute spesso dai cori faciulleschi di Jenny Conlee e di
tutta la band, scadono in bislacche e fastidiose pop song come Your Ghost e
We All Die Young. Occorre tornare sulle tracce di un certo abbandono nostalgico
nelle melodie di Tripping Along e della stessa dolciastra I'll
Be Your Girl, oppure fare un balzo nel pop raggiante di Sucker's
Prayer per riscoprire scintille dei Decemberists che furono, capaci
ancora di abbandonarsi alle leggende un po' picaresche di un tempo, come avviene
in Rusalka, Rusalka / Wild Rushes, otto minuti
a cavallo di una favola di origini slave che Meloy e compagni trasformano a loro
piacimento.
Troppo poco perché non si debba cassare I'll Be Your Girl
come il punto più confuso della loro carriera.