Figura
picaresca, tra gli ultimi eroi romantici di quel rock'n'roll che vive di passione
e sente un forte legame con la tradizione nera del rhythm'n'blues, in queste stagioni
Little Steven è stato impegnato in ruoli lontani dal gesto strettamente
discografico. Conduttore radiofonico, talent scout, e naturalmente attore (ormai
riconoscibilissima la sua fugura di Silvio Dante nella serie Sopranos), anche
la sua presenza nella E-Street Band è sembrata più volte una specie di mascotte,
un portafortuna indispensabile per sancire il legame con la storia del gruppo
e le sue origini nel New Jersey. Soulfire è in qualche modo un ritorno
sulle scene che guarda con nostalgia a quella lontana epoca, una raccolta di vecchi
successi, canzoni dimenticate e qualche cover selezionata ad arte che ripercorre
la carriera di Steven Van Zandt in qualità di autore per amici e spiriti affini.
Giungendo a quasi vent'anni dall'ultima testimonianza di studio, quel
Born Again Savage che sfoderava uno spirito più roccioso e garage rock nelle sonorità,
è facile festeggiarne con entusiasmo la presenza, che restituisce una voce, una
chitarra e un musicista dal carattere generoso. Ma la sorpresa è tutto sommato
constatare che, seppure avvolto in un'atmosfera di ricordi, Soulfire è un disco
che trasuda energia e partecipazione, un treno in corsa che utilizzando gli elementi
più familiari della ricetta di casa Little Steven e dei suoi inseparabili Disciples
of Soul, offre una bollente miscela di rock'n'soul (la rilettura di Saint
Valentine's Day e il finale di Ride the Night Away) così poco
frequentata al giorno d'oggi da suonare fresca e credibile. L'idea nasce da un
viaggio a Londra, da una reunion con i citati Disciples of Soul sul palco del
BluesFest e dall'idea di riprendere i fili della collaborazione con gente come
Stan Harrison e Eddie Manion degli Asbury Jukes.
Il sound di Soulfire
e della stessa title track, che apre le danze mostrando la luce alla banda, è
proprio quello dei primi leggendari dischi di Southside Johnny, prodotti dallo
stesso Little Steven, o delle collaborazioni con Gary Us Bonds negli anni ottanta.
Lo certifica il materiale scelto ad hoc, tra cui spicca subito I'm
Coming Back, brano scritto per l'amico John Lyon e presente nel suo
"Better Days" del 1991, o ancora le classiche I
Don't Want To Go Home, Some Things Just Don't Change e Love
on the Wrong Side of Town, quest'ultima firmata insieme a Bruce Springsteen,
materiale che infiammava il r&b rovente degli Asbury Jukes agli esordi e scriveva
un tempo il vocabolario essenziale del cosiddetto Jersey sound. Little Steven
si diverte, canta con convinzione e guida i suoi "Discepoli" incrociando chitarre
scalpitanti e panciute sezioni fiati, pura nostalgia doo wop (The City Weeps
Tonight, con la presenza dei Persuasions) e qualche tributo nemmeno
troppo celato alle produzioni di Phil Spector.
C'è persino il tempo di
mettersi in gioco attraverso alcune cover: accade in The Blues Is My Business,
rock blues un po' canonico ma di impatto che fu nel repertorio di Etta james,
e assai meglio in Down and Out in New York City,
rivisitazione del soul a trazione funk di James Brown, degna di una colonna sonora
da Blaxploitation anni settanta. Soulfire è un disco costruito con
mestiere e sentimento, e non fa che parlare di Little Steven in prima persona,
del musicista e dell'uomo, del suo modo onesto di intendere il sacro fuoco del
rock'n'roll.