Trentacinque
dischi e più di quarant'anni di carriera rappresentano cifre che si fa fatica
anche solo ad immaginare, figuriamoci a viverle in prima persona, portando avanti
una dedizione per la causa del rock'n'roll e del songwriting che non ha mai conosciuto
cedimenti, anche quando sono arrivati momenti bui, periodi meno ispirati e soprattutto
una indifferenza nei confronti di un talento che varebbe meritato ben altri palcoscenici.
La storia di Elliott Murphy la conosciamo in molti ed è comune a tanti
outsider della canzone rock americana, quelli che hanno vissuto fra l'epopea dorata
del genere e il suo ritiro fra le nicchie degli appassionati. Murphy, tuttavia,
più di altri è stato capace di ritagliarsi un suo mondo, un'indipendenza che dalla
New York degli anni settanta all'amata Parigi di oggi ha trovato nuovi stimoli
e una carriera solida, fuori dal grande circuito del music business, che pure
aveva sfiorato ad inizio carriera.
Questa premessa è un omaggio alla perseveranza
del personaggio e al fatto che Prodigal Son appare subito come il
suo disco più frizzante e ispirato da molti anni a questa parte. Quando eravano
pronti darlo un po' per "spacciato", così indaffarato a rileggere nostalgicamente
il suo vecchio repertorio (l'idea di Aquashow
Deconstructed, che non mi aveva convinto fino in fondo), Ellliott Murphy
compie uno scatto felino e grazie alla produzione del figlio Gaspard dà
un colpo di coda con nove canzoni ricche di sfumature elettro-acustiche, più ambiziose
nei suoni e negli arrangiamenti, collocando al fianco dei rodati musicisti francesi
(Alan Fatras, Laurent Pardo, scomparso purtroppo alla fine delle incisioni, e
l'inseparabile Olivier Durand) un manipolo di nuove leve, tra le quali il pianista
Leo Cotton e la violinista Melissa Cox, nonché un intero coro di voci in odore
di gospel, che spesso aiutano le melodie ad aprirsi.
Il "figliol prodigo"
evocato nel titolo è dunque rappresentato dalle canzoni stesse, incise in forma
di demo prima che partisse il progetto di Aquashow Deconstructed, messe momentaneamente
in soffitta e tornate a casa con soddisfazione e sorpresa dello stesso Murphy.
Non è eccessiva autoindulgenza la sua, perché Chelsea
Boots fa già capire che il folk rock dai tratti urbani di un tempo
è tornato in gran spolvero e anche le digressioni blues che tanto piacciono a
Elliott in questi anni della maturità hanno oggi più sostanza (Alone in My
Chair). Ma gli episodi che davvero distinguono The Prodigal Son e fanno riemergere
la scrittura degli anni migliori sono la pianistica Let
Me In, la stessa title track, trascinante ed epica nel suo tono gospel
rock, gemellate idealmente con Wit's End e Karen Where Are You Going,
fino alla cavalcata di Absalom, Davy & Jackie O,
undici minuti "dylaniati" in groppa ad una sorta di febbricitante racconto
noir (Murphy non ha mai nascosto il suo amore per la letteratura, pubblicando
anche romanzi), con personaggi, dialoghi e immagini vividi.
La ricetta
musicale in fondo è sempre la stessa, è il tenore con cui affronta queste canzoni,
e anche un evidente bilancio del tempo e dell'età che passano, a renderle però
più convincenti.