È
lo stesso Neil Young a toglierci dall'impiccio, quando canta Can't
Stop Workin', denunciando in qualche modo la sua perenne ricerca, la
sua iper-produzione a qualsiasi costo, quel restare sempre all'erta: per non arrugginire,
per bruciare in continuazione. Le sue ultime battaglie donchisciottesche le abbiamo
apprese nel recente tour di The
Monsanto Years, quindi nel successivo e sconclusionato disco dal vivo
Earth, al fianco dei giovinastri Promise of the Real. Sono coerenti con la sua
storia: l'ecologismo, la salvezza del pianeta dalla grinfie delle multinazionali,
la lotta per i diritti della terra e dei suoi popoli più bistrattati, primi fra
tutti i nativi americani, per cui ha avuto spesso una voce compassionevole (Crazy
Horse, non per nulla). A tutto ciò potete aggiungerci l'attualità americana del
ritorno dello spettro razzista, la confusione sotto i cieli del populismo e lo
scontro quotidiano con il mondo dell'informazione omologata e della tecnologia.
Sono alcuni dei temi pressanti che covano sotto gli accordi scarni e l'ambientazione
assai modesta di Peace Trail, ultimo (ma non ultimo, siamo pronti
a giurarlo) anello di una lunga catena di "instant record" che di tanto in tanto
lo hanno spronato alla lotta. Dieci canzoni catturate in quattro giorni di sessioni
con Jim Keltner alla batteria e Paul Bushnell al basso, badando all'urgenza
del messaggio, come se Neil Young non volesse perdere un minuto della sua veemenza
verbale ("ero molto più interessato in quello che avevo da dire che non a come
lo dovevo dire", ha ribadito Young in una recente intervista).
Con buona
pace del contenuto musicale e delle melodie, qui sacrificate in funzione di una
necessità probabilmente più immediata per l'uomo e assai meno per il songwriter.
Il risultato è confuso, intrigante a livello ritmico, ma soltanto abbozzato, volutamente
incompleto: dal fiero schieramento accanto alle lotte dei Sioux del North Dakota,
che ha ispirato una parte di Peace Trail (il
testo migliore della raccolta), quintessenza dello Young scorbutico, scuro ed
elettrico, Show Me (uno rimasuglio di Harvest Moon? La sensazione è quella)
e più ancora esplicitamente Indian Givers,
fino alle meditazioni personali di Glass Accident (qualcosa pare addensarsi
attorno al matrimonio in frantumi, in un country rock sbilenco che resta tra gli
episodi più riusciti dell'intero lavoro) e My New Robot nel finale.
Spunti
più che canzoni, tentativi più che arrangiamenti, con la curiosità di capire dove
il buon Jim Keltner andrà a parare con il groove dei suoi tamburi, l'unica chiave
di fascino perverso dell'album, colto all'inseguimento delle sconnesse proposte
di Neil Young. Altro modo non c'è per affrontare scherzi come Texas
Rangers e Terrorist Suicide Hang Gliders o ancora la tediosa
parabola di resistenza narrata in John Oaks,
brani a volte scossi da una lancinante armonica distorta e poco più, galoppate
di chitarra acustica che portano raramente da qualche parte, melodie svagate perse
per strada. My Pledge recupera persino famigerati
effetti vocali con l'auto-tune, che credevamo accantonati per sempre, e nella
chiusura di My New Robot il tutto straripa, come se nascesse insieme un
mostro a due teste, Woody Guthrie con l'epopea discografica di Trans.
Anche
al netto di una musica così raffazzonata, le liriche stesse di Young appaiono
tanto generose quanto semplicistiche, a tratti in affanno sul filo della retorica:
un campione assoluto quando si tratta di scavare nell'oscurità dell'anima, in
quello spleen esistenziale che lo ha reso un maestro, Neil ha sempre avuto qualche
problema a intestarsi il titolo di folksinger protestario. Da Hawks and Doves
a The Monsanto Years passando per Living with War pareva già chiaro che non fosse
il suo punto di forza. Peace Trail non fa che ribadirlo.