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back to the roots di
Yuri Susanna (02/05/2016)
Quando
ci si era trovati tra le mani Hendra, due anni fa, ci si era stupiti di come quello
fosse solo il secondo disco a proprio nome di Ben Watt, per di più concepito
a 31 anni di distanza dall'esordio. Certo, non è che nel frattempo la vita artistica
di Watt sia stata povera di avvenimenti. Ma Hendra aveva di sorprendente proprio
questo: riallacciava con naturalezza un discorso interrotto tre decenni prima,
come se il successo degli Everything But the Girl, l'infatuazione per l'elettronica,
le serate da animatore della club scene di Londra, la Buzzin' Fly (etichetta di
deep-house fondata da Watt agli albori dello scorso decennio) non fossero state
altro che delle parentesi, una volta chiuse le quali poter ricominciare a praticare
quel folk-pop dalle tinte autunnali che aveva spinto North Marine Drive
in cima alle indie-charts inglesi nel lontano 1983. Hendra poteva essere interpretato
in tanti modi: un pegno pagato alla gioventù del suo autore, un ritorno alle fonti
della propria ispirazione, uno sguardo all'indietro dalla cima dei propri cinquant'anni.
Restava comunque da capire se si dovesse considerare un cerchio che andava a chiudersi
o una ripartenza. Senza attendere altri 31 anni, abbiamo ora una plausibile risposta:
Fever Dream riparte da Hendra e va oltre, mostrandoci come la maturità
di Watt passi dal recupero di un linguaggio per molti versi classico, se si intende
per classicismo la riscoperta delle chitarre (soprattutto l'elettrica, sempre
più protagonista), affidate ancora alle mani amiche di Bernard Butler.
Il suo contributo non può essere sottostimato: il chitarrista magniloquente
che abbiamo conosciuto con i primi due album degli Suede si è messo a lavorare
sottotraccia, assecondando i brani con umiltà: pochi tocchi sono sufficienti a
dare un'anima alle canzoni, siano le svisate younghiane di Gradually,
le acide sottolineature di Women's Company o le distorsioni che dialogano
col piano nell'accorata Winter's Eve, dove
ascoltiamo con piacere Watt affermare, con l'orgoglio della raggiunta mezza età,
"There's still so much that I want to do" (per niente scontato, vista la lotta
che ha dovuto ingaggiare con una rara sindrome autoimmune diagnosticatagli negli
anni '90). L'altra evidenza di Fever Dream è il suo debito verso un immaginario
sonoro americano ben piantato negli anni Settanta. Il sogno febbrile di Watt lascia
decantare influenze che nella parabola pluridecennale del musicista londinese
erano rimaste fino ad oggi ben celate. Sono la West Coast dolceamara di Jackson
Browne (Bricks and Wood), il pop virato seppia
dei Fleetwood Mac (Between Two Fire), le armonie dagli orizzonti lunghi
di Crosby, Stills & Nash (Faces of My Friends) a tracciare il landscape
entro cui prende forma la gran parte di Fever Dream. Un bel salto, per uno che
ha esordito sotto l'ala protettiva di Robert Wyatt. Non che siano sparite di colpo
tutte le influenze british dalla scrittura di Watt (John Martyn è sempre lì),
ma c'è un mood da viaggio in auto al crepuscolo lungo la Pacific Coast Highway
che percorre il disco, al posto dello sguardo dietro i vetri rigati dalla pioggia
a cui eravamo abituati.
La partecipazione di MC Taylor (Hiss Golden
Messenger) nel brano che intitola l'album sottolinea quanto Watt sia interessato
alla riscoperta di quel songwriting in bilico tra country, psichedelia e soul
di cui Taylor è oggi uno dei più credibili eredi. A ricordarci che il disco è
stato registrato nei Rak Studios di Londra e non a Laurel Canyon ci sono comunque
Running with the Front Runners, incrocio di folk, bossanova e elettronica
minimale che è anche l'unico brano che non stonerebbe in un disco degli Everything
But the Girl e la chiusa di New Year of Grace,
con quel contrappunto vocale di Marissa Nadler che fa tanto Pentangle. Chi l'avrebbe
detto, che Ben Watt sarebbe finito a giocare sullo stesso terreno di revivalisti
come Jonathan Wilson... In ogni caso, la sua maestria di scrittura lo mette al
riparo da rischi di formalismi e fa di Fever Dream uno dei più riusciti e godibili
prodotti classic rock dell'anno. Il che è davvero sorprendente, se si pensa che
il suo autore fino a qualche anno fa infiammava le notti techno-house londinesi
da dietro la consolle del Notting Hill Arts Club.