File Under:into
the wilderness di
Fabio Cerbone (02/05/2016)
La
voce che alterna un'imbambolata distanza, un monologo degno di un Lou Reed in
abiti folk rock dylaniani, ma con inaspettate sfumature di dolcezza, la musica
che ha un sapore pastorale e psichedelico a seconda degli umori, dividendo idealmete
in due facciate il disco. È un bell'effetto quello che restituisce il terzo lavoro
solista di Kevin Morby, figura tra le più interessanti del neo-tradizionalismo
rock americano, di quelle che si collocano perfettamente a metà strada fra una
continua evocazione delle radici e dei grandi maestri e una sensibilità indie
rock più attuale. Potremmo accostarlo esteticamente all'ultimo percorso di Damien
Jurado, nei momenti più "sperimentali" e scuri del disco, così come a Kurt Vile
nelle ballate più stupite e sospese, in generale a quella generazione di musicisti
e autori allevati nell'area alternativa e con il tempo capaci di affinare il loro
gusto sonoro.
È accaduto questo anche alla produzione di Morby, che di
album in album e dopo svariati diversivi in band durate lo spazio di un battito
di ciglia, giunge alla maturità compositiva di Singing Saw. Già
noto come bassista del collettivo indie folk Woods, lasciati definitivamente per
la carriera solista, animatore del progetto The Babies insieme a Cassie Ramone,
Morby sembra avere assorbito i differenti stimoli delle città in cui ha vissuto,
spostandosi da New York a Los Angeles in pochi anni e conservando al tempo stesso
le sue origini da profonda America (nato in Texas, cresciuto a Kansas City). Se
a tutto ciò aggiungiamo l'improvvisa infatuazione per la musica di The Band e
dell'immancabile "spalla" Bob Dylan, scopriremo le ragioni di un disco
registrato a Woodstock, guarda caso, con più mezzi a disposizione (nuova etichetta
a fare da garanzia, la Dead Oceans) e una specie di guida spirituale o di anima
gemella in Sam Cohen (Apollo Sunshine, Yellowbirds), che affianca Kevin Morby
nella scelta degli arragiamenti, dai più eccentrici a quelli che profumano di
classico.
Si diceva di un doppio volto musicale in Singing Saw e così
è infatti, con una prima parte, racchiusa in cinque brani che colgono il mistero
di certa Americana cosmica, riflesso anche nella tipica copertina da "natura selvaggia":
l'incedere incantato di Cut Me Down, folk
rock agreste dai riflessi settanteschi e immerso nei riverberi; la più zigzagante
e moderna I Have Been to the Mountain, innalzata
da stranianti cori e un inserto di fiati; la sinistra, ossessiva title track,
splendida ballata, rapita nella sua annebbiata melodia, nella sua pigrizia ritmica,
e in quel serpeggiare chitarristico da tenue psichedelia; una Drunk and on
a Star che sarebbe davvero piaciuta a Lou Reed, perché possediede la serenità
e la sottile estasi di certi episodi alla Coney Island Baby; l'esplosione elettrica
e pop di Dorothy, l'episodio più "leggero"
e trascinante del disco, con la sua ritmica martellante.
Da questo punto
in poi per qualcuno Singing Saw potrebbe anche avere esaurito il suo fascino e
c'è chi non ha mancato di sottolineare una normalizzazione delle canzoni, una
chiusura in una certa intimità da folksinger. Tutto sacrosanto, se non che nei
piccoli dettagli, negli amabili abbellimenti delle ballate di Morby ci sono sempre
epifanie da scoprire: il fluttuare del piano nella nostalgica Ferris
Wheel, gli archi che accompagnano con eleganza Destroyer e si
tengono per mano con il sax dell'ospite Alec Spiegelman, quelle voci ancora stralunate
e celestiali che assecondano la tradizionale scrittura folk di Black Flowers,
e infine le confessioni di Water, che parte
al trotto dopo due minuti di attesa e si trasforma in un country rock da elegia
che pare sbucato direttamente dall'epopea dei Basement Tapes.