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heartland di
Fabio Cerbone (22/02/2016)
I
personaggi che prendono vita nelle canzoni di Malcolm Holcombe sembrano
non essere mai usciti dalla Grande Depressione, sono come inghiottiti da un buco
spazio temporale che li fa muovere su una scena fatta di small town, solitudini
e duri colpi inferti dalla vita, sempre alla ricerca di una redenzione. In fondo
non ha tutti i torti il songwriter della North Carolina, perché questa America
esiste ancora, e tutti i giorni sembra fare i conti con l'altra faccia del sogno
americano, mai realmente esistito, lo sappiamo noi come lo sa bene Malcolm Holcombe.
Le sue liriche non sono una cartolina di auguri e lui tanto meno un personaggio
artefatto, ma un testimone di quella vita sulla strada e di quei vizi che
lo hanno collocato sul bordo del precipizio. La senti la verità in quella voce
ormai impastata, sibilante, che si accompagna al picking percussivo della chitarra.
Another Black Hole è l'album numero quattrordici e arriva,
a stretto giro, dopo la celebrata e per nulla enfatica rilettura del suo vecchio
repertorio nell'ottimo RCA
Sessions. Qui torniamo nei ranghi e ancora una volta sarà difficile
non schivare le accuse di una musica in fondo sempre uguale a se stessa, ballate
dal sapore rurale, tra ambientazioni country blues e accenni di swamp rock, che
costituiscono una variante infinita del medesimo copione. Eppure Another Black
Hole, sarà l'affiatamento con la band che lo affianca da anni (Jared Tyler al
dobro, banjo e mandolino e Dave Roe al basso, cui si aggiunge la batteria dell'ex
Wilco Ken Coomer), sarà la presenza imprevista di Tony Joe White all'elettrica,
resta un album saldamente ancorato alle certezze della migliore tradizione folk
americana. Alle liriche si è già accennato: spietate, non cercano né facile compassione
né tanto meno il romanticismo d'accatto; magari rischiano un pizzico di retorica
da "belli e perdenti", ma si riscattano nella sincerità con cui lo stesso Holcombe
le interpreta.
Il disco parte rustico e tinteggiato di bluegrass nei ricordi
di Sweet Georgia e strada facendo prova a
spingere su tonalità insolitamente più elettriche per lo stile del nostro: accade
proprio grazie alla presenza di Tony Joe White, che sparge scuri semi blues nella
title track, un po' come fossimo dalle parti dell'ultima Lucinda Williams, e altrettanto
nella tormentata Don't Play Around, con la
chitarra baritono di Jared Tyler a segnare le cicatrici del canto di Malcolm,
mentre Papermill Man affonda nel solco di
un secco rock sudista, "ingrassato" dalla seconda voce soulful di Drea Merritt.
Certo, quello che resta lo abbiamo già sentito, compresi i profumi da campagna
country di Someone Missing e Leavin' Anna
(con una dedica a Cormac McCarthy nel testo), o i sobbalzi di dobro e mandolino
fra le pieghe della dolce Way Behind, ma questa è musica che insegue prima
di tutto un senso di appartenenza e comunità per tirare avanti, un motivo per
narrare la vita partendo dal basso, dalle cose più semplici.
È un po'
la natura di tutti i grandi storyteller americani, e Malcolm Holcombe, testimone
in prima persona con la sua vicenda umana travagliata, sembra essersi ritagliato
il suo piccolo spazio tra i più duri e puri della categoria.