File Under:Jersey
boy di
Fabio Cerbone (21/03/2016)
"Non
voglio sopravvivere, voglio una vita meravigliosa" canta Brian Fallon nell'apertura
del suo primo disco solista, Painkillers. Gli auguriamo di riuscirci,
anche se il successo dei Gaslight Anthem dovrebbe averlo già confermato in tutti
questi anni. In realtà, con la band di riferimento messa in pausa indefinita,
la sua carriera sembra dover riconquistare fiducia, attraverso un percorso a tappe
che già in passato lo aveva visto ritagliarsi un necessario spazio di indipendenza.
C'erano stati gli Horrible Crowes, per esempio, il progetto estemporaneo nato
insieme al suo tecnico delle chitarre, Ian Perkins, e che aveva suggerito scenari
persino inediti e un'ispirazione più sincera rispetto alle ultime prove di studio
con i Gaslight Anthem.
Già, perché il problema di Fallon, e forse lo sa
bene anche lui, era proprio quella fiammella che lentamente si stava spegnendo,
attraverso lavori sempre più incolori e scialbi, fino a quel Get Hurt, nato sulla
scia del suo divorzio, che toccava il punto più basso della loro discografia.
Painkillers, nucleo di canzoni concepite in questo periodo di mezzo e accantonate
nel tempo, risente ancora di quella ferita, ma cerca al tempo stesso di reinventarsi
un'immagine. Lo fa attraverso la produzione dell'amico Butch Walker, che
firma anche tre brani in combutta con Fallon, e prende in mano la regia musicale
dell'album, e di musicisti come Josh Kaler (steel guitar) e Catherine Popper (basso,
già nei Cardinals di Ryan Adams), che lo conducono in territori vicini all'Americana,
tra ballate folk rock infarcite di mandolini e pedal steel, senza tralasciare
però il richiamo pop delle melodie e quel gusto immediato e romanticamente rock
della sua scrittura. Il risultato è una raccolta piantata a metà strada, una versione
più rustica e apprezzabile dei Gaslight Anthem, che non tralascia però quei singalong
che sono ormai un marchio di fabbrica e anche una zavorra pesante, quell'enfasi
figlia legittima del Jersey sound che ritroviamo in A
Wonderful Life, nei battiti di mani in Smoke, nell'arrembante
elettricità di Red Lights, Rosemary
e via di questo passo.
C'è vita in queste canzoni, per carità, certamente
più che nella band in agonia da cui Brian Fallon si è tirato fuori, ma non abbastanza
per rendere Painkillers un disco di rottura con il passato: Springsteen è ancora
un'ombra minacciosa (e non tanto perché il tutto si conclude con una traccia intitolata
Open All Night, peraltro tra le migliori del lotto) e ingombrante,
qualche volta scrollata di dosso cercando rifugio nell'altro campione del mainstream
rock americano (Tom Petty, e chi altrimenti?), riuscendo ad essere personale nell'acustica
Steve McQueen, infarcita di quei miraggi da american dream che segnano
i versi di Fallon, e più sbarazzino in Mojo Hand, sulla quale l'impronta
pop di Butch Walker si fa sentire con piacere. Un briciolo di carattere in più
ce lo ha messo Brian Fallon, ma non abbastanza per uscire da una lunga serie di
clichés.