Mary Chapin Carpenter
The Things That We Are Made Of
[Lambent Light/ Goodfellas 2016
]

www.marychapincarpenter.com

File Under: folk ladies

di Fabio Cerbone (10/05/2016)

Un costante senso della misura pervade le undici nuove incisioni di Mary Chapin Carpenter, ballate intime e forbite che non eccedono mai in un moto di passione oltre il dovuto. Lettere scritte dal cuore, come l'iniziale Something Tamed Something Wild, saliscendi elettro-acustico scelto non a caso per dettare la linea, e riflessioni sulla vita che scorre, sulle memorie, sui luoghi che ha attraversato, tematiche ben riassunte in titoli quali The Middle Ages, Map of My Heart, tra le più vivaci della raccolta, Hand on My Back o What Does It Mean to Travel. Tutta questa moderazione è al tempo stesso la cifra stilitisca e il cruccio maggiore di un album che conferma la cantautrice americana come una delle voci più nobili di certo country folk d'autore, ma anche un'artista ingessata in uno stile che non prevede cambi di rotta, scossoni, o variazioni sul tema della tradizione.

Quattordicesimo album in carriera, costellata di vendite milionarie (soprattutto nella prima metà degli anni novanta, periodo in cui la Carpenter divenne una delle voci femminili più autorevoli di Nashville), The Things that We Are Made Of è anche il primo lavoro fuori dal grande circuito delle major e del music buiness che conta (per anni con la Columbia, poi con la prestigiosa Rounder), una sorta di ritorno alle origini e di ricerca della purezza, tra un suono che sa di cristallino folk rock e di piccole armoniose partiture country, quella via di mezzo fra le coffee house di Washington Dc da cui Mary ha avviato la sua storia e gli studi di Nashville nei quali è diventata una signora della canzone americana. Forse si tratta anche di una reazione nei confronti del predecessore Songs from the Movie, disco orchestrale e ambizioso realizzato con l'arrangiatore Vince Mendoza, che poco aveva a che fare con il percorso discografico della musicista.

Oggi entra in gioco il nuovo nume tutelare delle produzioni alternative country, Dave Cobb (da Jason Isbell a Chris Stapleton, sua la regia dietro i più grandi successi dell'Americana di questi anni), che curando gli arrangiamenti e asciugando il sound con piccoli abbellimenti d'ambiente (soprattutto i pianisti Jimmy Wallace e Mike Webb) e solide fondamenta acustiche, mantiene The Things That We Are Made Of dentro i binari della bella grafia. Il problema a volte è distinguere un'atmosfera dall'altra, una canzone dalla successiva, perché va bene riflettere il senso di uniformità dei sentimenti affrontati in queste composizioni, ma qualche sussulto di tanto in tanto avrebbe giovato a un album nel quale, arrivati alla conclusione con la stessa title track, si avverte un senso di rispettoso contegno. E anche un po' di monotonia.


    


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