Jesse Malin
Outsiders
[
One Little Indian
2015]

www.jessemalin.com

File Under: it's hard to be a saint...

di Fabio Cerbone (28/10/2015)

I tamburi di Outsiders scandiscono un beat alla Bo Diddley e siamo già dentro il suono della città, la colonna sonora di una New York ai margini, tra vicoli e storie dove ogni lasciata è persa. Romanticismo da "beautiful losers" e sentimenti colti "tra ottimismo e disgusto", come ha sintetizzato l'autore stesso nel presentare il disco, fanno ancora parte del bagaglio di Jesse Malin. È uno degli ultimi rinnegati in circolazione a credere in questo sound livido e urbano, lascito di una stagione che lui si ostina a tenere in vita contro tutte le presunte nuove vie del rock'n'roll, o di quello che ne è rimasto. Una sorpresa, non c'è che dire, questo secondo album datato 2015, che giunge a pochi mesi dall'ottimo ritorno di New York Before The War. I cinque anni di pausa discografica forzata devono avere spronato Malin al tutto e per tutto, così l'ispirazione è letteralmente esplosa e undici episodi arrichiscono il raccolto.

Il mezzo miracolo è che Outsiders è un lavoro altrettanto valido, persino più spumeggiante rispetto al suo recente compagno, perché riesce a cogliere ogni sfumatura del songwriting e a riassumere le influenze accumulate nel tempo dall'ex ragazzo terribile dei D-Generation. Certo, non aggiunge nulla a quanto già sapevamo del musicista, ma ne definisce i contorni con una precisione chirurgica. Nei solchi ci sono infatti le "streets of fire" di Bruce Springsteen e il punk rock straccione delle New York Dolls, il folk elettrico di Willie Nile e la poesia maledetta di Lou Reed, qualche scampolo di new wave e i tanto amati Clash (la commovente rilettura per acustica e piano di Stay Free), e ancora bassi che pulsano funky in Society Sally e un sax fragoroso che esplode in The Hustlers come potrebbe pensarlo soltanto Iggy Pop con gli Stooges. C'è insomma un'idea di metropoli musicale che ha accompagnato un preciso immaginario del rock'n'roll da quarant'anni a questa parte: del resto un titolo come Edward Hopper (Somewhere in the Night) potrebbe risparmiare la fatica di questa stessa recensione. Sintesi perfetta, compreso quell'andamento un po' sbarazzino nella melodia.

Al resto ci pensa la band che Malin ha messo insieme con il fedele Derek Cruz e il produttore Don DiLego, spirito affine che ha capito al volo le intenzioni del suo "assistito", coalizzandosi in una serie di sessioni tenutesi nel cuore della notte, in un studio della Pennsylvania. La canzoni suonano romantiche (San Francisco), notturne e perfettamente calate nelle backstreets della Grande Mela (In The Summer), rumorose e trascinanti (la convulsa Here's The Situation, ospite la sei corde di J Mascis dei Dinosaur Jr.), abbandonate al boogie più eccitante e smargiasso (Whitestone City Limits). Fino a You Know It's Dark When Atheists Start to Pray, una sorta di saliscendi lungo la vita stessa di Jesse Malin che trotta a ritmo folk rock tra le ombre di Bob Dylan e una sezione fiati spuntata direttamente dai quartieri di New Orleans.


    


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