Nell'anno
del tanto agognato Nobel a Bob Dylan, uno dei pù generosi "nuovi Dylan" non si
tira indietro dall'omaggiare il maestro. È la voce di Willie Nile quella
che cerca di cogliere il mistero e la forza di un canzoniere da far tremare i
polsi e prova a dare un senso attuale a canzoni che in verità non ne hanno affatto
bisogno, avendo trasceso il tempo della modernità. Sappiamo quanto Nile sia legato
a doppio filo con la figura di Dylan, proprio a partire da quell'esordio, era
il tramonto dei Settanta, che faceva cadere la puntina sui solchi di Vagabond
Moon e annunciava, ai pochi che se ne accorsero (purtroppo), l'avvento di
un piccolo agguerrito rocker di Buffalo, che prendeva il fervore folk dei sixties
e lo accompagnava alle chitarre del punk e alle "strade di fuoco" della
New York di quello scorcio di fine decennio.
Da allora sono passate stagioni
e sfortune, rinascite e ritorni, tanto che oggi Nile si è costruito il suo percorso,
trovando un luogo in cui fare resistenza tramite il suo rock'n'roll onesto e innocente.
Positively Bob nasce da un'occasione fortuita, Willie chiamato a
interpretare quattro canzoni di Dylan per un concerto che celebrava i settantacinque
anni di quest'ultimo. Da lì alla concezione del disco il passo è stato breve,
anche se non obbligatorio, aggiungiamo noi. Perché nel diritto di dichiarare queste
canzoni ancora essenziali per decifrare il mondo che abitiamo, Nile le affronta
con rispetto ma senza guizzi di genio (che d'altronde non ci saremmo aspettati),
infilandosi in un'operazione che ha un sapore personale, certo, un atto di devozione,
forse, ma a livello musicale e discografico nulla aggiunge sia alla carriera dell'interprete,
sia, evidentemente, a quella dell'artista omaggiato.
Inciso senza fronzoli
con una squadra di amici e collaboratori ben noti, trai quali spicca il collega
James Maddock alle chitarre e cori, Positively Bob si mette sulle tracce
soprattutto del Dylan "profeta" folk dei sixties e lo rispolvera in chiave di
arrembante rock urbano e svelto power pop, come lo possiamo sentire nelle versioni
di The Times They Are a Changing, A Hard
Rain's A-Gonna Fall e Blowin' in the Wind
(si poteva evitare, francamente) prima di virare verso la giravolta elettrica
di Subterranean Homesick Blues. Affrontate con sentimento, ma senza una
vera ragione di riscrittura, queste canzoni reclamano a gran voce di essere lasciate
in pace, troppo sedimentate nella storia per avere altra interpretazione che non
sia davvero alterata, inedita, imprevedibile. Non è il caso di Nile, che
sceglie per forza di cose un approccio semplice e affezionato, che acquisisce
nella seconda parte un tono più acustico con I Want You,
gigioneggia con la filastrocca country You Ain't Goin Nowhere (troppo ricalcata
sull'originale) e si abbandona finalmente nel ripescaggio di qualche episodio
più curioso e meno prevedibile, come Every
Grain of Sand e Abandoned Love (brano di metà anni settanta
che uscì ufficialmente solo in Biograph).
Che tutto questo sia nato per
un sincero augurio di compleanno e per atto di adorazione verso Dylan lo comprendiamo,
che sia altrettanto indispensabile, anche per la stessa carriera di Willie Nile,
assai meno.