Steve Earle & The Dukes
Guy
[New West 2019]

steveearle.com

File Under: Deep down in Texas

di Fabio Cerbone (03/04/2019)

A metà degli anni Settanta la casa di Susanna e Guy Clark è un porto aperto, un crocevia di ribelli e sconosciuti talenti, per lo più espatriati texani che cercano a Nashville il loro primo colpo di fortuna. È lì che bisogna dirigersi se si vuole agguantare il successo, spedire la canzone che ti risolverà la vita sotto il naso di qualche famelico discografico del Music Row - il viale per eccellenza del business musicale, dove tutta l’industria del country si pesta i piedi per trovare la next big thing. Guy, figlio del Texas come gli amici che ospita, è approdato in città dopo un breve soggiorno in California, deve ancora incidere l’album d’esordio, quell’Old No.1 che nel 1975 lo iscriverà di diritto nella storia della canzone d’autore americana, ma alcune sue composizioni hanno già fatto breccia nelle interpretazioni altrui. Vanta una rete di conscenze e amicizie che possono spianare la strada a chiunque, compreso quel ventenne scapestrato, Steve Earle, tra i più giovani frequentatori (con lui ci sono anche Rodney Crowell e John Hiatt) delle serate a base di chitarre e alcol che si susseguono dai coniugi Clark.

A quasi tre anni dalla scomparsa (nel maggio del 2016) e a dieci da quel Townes che omaggiava l’altra metà del cielo texano (Townes Van Zandt), Guy è la lettera d’addio che Steve non ha mai scritto in vita per l’amico e consigliere. Fra i tanti, troppi errori commessi, di uno in particolare si dichiara sinceramente pentito Earle: quello di essersi rifiutato, negli ultimi momenti in cui Clark era vivo, di scrivere insieme una canzone. Troppo orgoglio, altri impegni per la testa, e alla fine l’occasione se ne è andata, trascinandosi dietro l’anima di Guy. A sessantaquattro anni, sopravvissuto miracolosamente a prigioni, matrimoni e dipendenze varie, Steve Earle prova a riparare i torti, si coalizza con i riformati Dukes di queste stagioni (che hanno nel chitarrista Chris Masterson un buon direttore d’orchestra) ed estrapola sedici brani da un immenso catalogo di gemme che Clark ha sciorinato in quattro decenni di carriera. Earle la conosce bene quella carriera, avendola inseguita e ammirata fin da ragazzino. Lo si può osservare nel documentario di culto Heartworn Highways, imberbe e desideroso di apprendere, in alcuni stralci di quella arruffata poesia e di quell’irripetibile stagione del songwriting americano che avvenne a Nashville, circondato dai mentori Guy Clark e Townes Van Zandt, cercando di rubare ogni segreto... E anche i numerosi vizi.

Sono il diavolo e l’acqua santa, i suoi Kerouac e Ginsberg come li definisce lo stesso Steve, maestri di (cattiva) vita e di grandi qualità narrative: Clark è l’artigiano paziente, come le chitarre che si metterà a costruire in proprio, un disciplinato cesellatore di versi, Townes il poeta maudit e tormentato, entrambi alzano il gomito e possono diventare molto pericolosi. Steve Earle non si lasciò sfuggire l’opportunità e quello che non seppe o volle imparare a scuola, scappato di casa ancora ragazzino, lo apprese dalla strada dei due compari, diventando persino il bassista (poco provetto) nella band di Guy Clark e finendo persino per incidere alcune parti vocali nel citato capolavoro Old No.1. Per il suo vero debutto ci vorranno ancora la bellezza di dieci anni, trascorsi fra cadute clamorose e promesse non mantenute, ma quando Steve arriverà a fare il botto grazie a Guitar Town (1985), la mano tesa di Guy Clark si sentirà fra le note dei suoi primi successi.

Il suono dei Dukes nel 2019 non è quello del tempo e neppure la voce, increspata e vissuta, è la stessa, ma la saggezza è dalla parte di Steve Earle, che scava nel repertorio di Clark con ossequio e affetto. Forse resta fregato da questa sua ammirazione, non aggredisce e stravolge con violenza gli originali, e non potrebbe altrimenti, visto il legame sentimentale, eppure Guy suona più spiritato e vivace del predecedente album tributo Townes. Strano, a pensdarci bene, perché tutti abbiamo sempre immaginato che fra Earle e Van Zandt esistesse una dipendenza artistica e umana oscura e quasi fatale. E invece eccole spuntare Dublin Blues e L.A. Freeway in tutta la loro pacifica bellezza, avvolte in una familiare coperta country rock, “outlaw” per vocazione e sentimento, anche se oggi questo linguaggio è diventato la legge dell’Americana. Il repertorio lo conosciamo in gran parte, ma per chi fosse sprovvisto di punti di riferimento, sappia che Guy conferma una volta di più la densità narrativa del songwriting di Clark, quel suo intrecciare dimensione poetica e realismo americano, luoghi del mito e strada vera, polvere del Texas e personaggi usciti da un romanzo: come Rita Ballou, The Ballad of Laverne and Captain Flint, l’epica sarcastica di The Last Gunfighter Ballad e l’anedottica di Texas 1947, fino a toccare il suo vertice nel gioiello The Randall Knife, una della canzoni sul rapporto padre/ figlio più intense che siano mai state scritte, un legaccio di sentimenti e ricordi.

Gioco forza, Steve Earle sembra attingere a piene mani dai primi due lavori di Clark (Old No.1 e Texas Cookin’), quelli che ne hanno definito lo stile e la direzione, e probabilmente quelli che ha consumato di più da giovane discepolo, ma c’è spazio anche per una eccitata New Cut Road dall’aspro sapore hillbilly, successo nella versione di Bobby Bare, o per il sobbalzare honky tonk di Heartbroke, a suo tempo divenuta una hit per Ricky Skaggs. Restano in disparte gli ultimi anni di Guy, quelli più acustici e riflessivi, lontani forse dalla sensibilità di Steve o dalle sue stesse possibilità interpretative, ma non ci lamentiano se in cambio riceviamo il rutilante, acido roots rock di Out in the Parking Lot, tra i passaggi più elettrici della raccolta, e la sgroppata bluegrass tra acustico ed anima fuorilegge di Sis Draper.

Il finale poi è una missiva spedita da una intera generazione più che una canzone: Old Friends, omonima traccia dell’album del 1988 firmata da Clark con Richard Dobson (anch’egli scomparso in tempi recenti), è ripercorsa con un respiro nostalgico per anni di formazione e selvaggia fiducia nel domani, con le voci di Emmylou Harris, Rodney Crowell, Terry Allen e Jerry Jeff Walker ad affiancare il nostro Steve.


    

 


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