AAA cercasi canzoni disperatamente:
Kurt Vile dovrebbe (o meglio potrebbe, perché il talento
c'è tutto) essere uno dei nuovi punti di riferimento nell'evoluzione
della canzone rock più classica, intesa quest'ultima come un lungo filo
rosso che dalla tradizione, persino dal folk più austero, procede
nella direzione che è stata indicata negli anni dai mostri sacri del linguaggio
alternative rock fino ad approdare alla sensibilità "indie" di questi
anni. Non a caso Vile, dopo le prime avvisaglie nel progetto War on Drugs,
si è sempre mosso in casa Matador al confine tra bassa fedeltà acustica,
nuova psichedelia e oggi persino in un magma pop rock che a qualcuno ha
fatto scomodare paragoni con istituzioni del mainstream americano come
Springsteen e Tom Petty. È proprio da qui che bisognerebbe partire per
ribadire il concetto espresso in apertura: se Wakin on a Pretty
Daze è certamente un disco più "studiato", ambizioso e persino
confidenziale nelle melodie, rispetto all'ombroso Smoke
Ring For My Halo, è altrettanto vero che in esso non vi è traccia
alcuna di quella struttura-canzone che lo possa accostare, anche lontanamente,
ai signori di cui sopra.
Imbambolato in un rimuginare di pensieri tra l'intimo e le tonalità più
dark, Kurt Vile continua ad esprimere una voce troppo sghemba per abbracciare
il rock'n'roll più diretto e stradaiolo. Ci sono sicuramente avvisaglie
della sua maturazione come autore, un sentiero che guarda alla lezione
di giganti quali Neil Young, tra il delicato mantra folk elettrico della
stessa Wakin on a Pretty Daze e l'arcigno
riff sulla direttiva Bowie-Reed di KV Crimes,
ma in generale il disco si perde a volte in una nebbia strumentale che
stiracchia i brani all'inverosimile (gli otto minuti di incantati arpeggi
in Too Hard, gli oltre dieci di una Goldstone
francamente estenuanti) e si arrovella intorno ad abbozzi di melodie e
vaghi intrecci elettro-acustici con un fare pigro, autentico "laid
back" direbbero gli americani. Quando l'approccio dei musicisti e
del produttore John Agnello mantiene invece il flusso di coscienza di
Vile entro certi limiti, anche di minutaggio, gli esiti acquistano un
mood stralunato e affascinante (le acustiche Never
Run Away e Pure Pain) che sancisce una dipendenza fortissima
dal linguaggio di J Mascis (Dinosaur Jr) e Thurston Moore (Sonic Youth),
tanto che giunti a Snowflakes Are Dancing
si potrebbe anche nutrire qualche dubbio sull'identità del musicista in
esame.
Forse il problema sta proprio qui, nell'impossibilità di scorgere tutta
questa ventata di freschezza nel suo songwriting (potremmo giusto accennare
ai leggeri rintocchi di elettronica in Was All
Talk e Air Bud), e semmai di assistere ad una propaggine
delle conquiste avvenute all'interno dell'underground rock americano a
partire dalla metà degli anni 90. Viene voglia di ripescare Demolished
Thoughts del citato Thurston Moore o magari il meno strombazzato (e
ottimo) Between The Times and The Tides del collega Lee Ranaldo
per mettere alle corde il buon Kurt Vile. Non che necessariamente le "vecchie
glorie" siano sempre meglio dei giovani talenti (lungi da queste pagine
il solo pensarlo), ma ogni tanto il senso delle proporzioni è sacrosanto.