Kurt Vile
Wakin' On A Pretty Daze
[
Matador
2013]

www.kurtvile.com

File Under: psychedelic rock, indie folk

di Fabio Cerbone (02/05/2013)

AAA cercasi canzoni disperatamente: Kurt Vile dovrebbe (o meglio potrebbe, perché il talento c'è tutto) essere uno dei nuovi punti di riferimento nell'evoluzione della canzone rock più classica, intesa quest'ultima come un lungo filo rosso che dalla tradizione, persino dal folk più austero, procede nella direzione che è stata indicata negli anni dai mostri sacri del linguaggio alternative rock fino ad approdare alla sensibilità "indie" di questi anni. Non a caso Vile, dopo le prime avvisaglie nel progetto War on Drugs, si è sempre mosso in casa Matador al confine tra bassa fedeltà acustica, nuova psichedelia e oggi persino in un magma pop rock che a qualcuno ha fatto scomodare paragoni con istituzioni del mainstream americano come Springsteen e Tom Petty. È proprio da qui che bisognerebbe partire per ribadire il concetto espresso in apertura: se Wakin on a Pretty Daze è certamente un disco più "studiato", ambizioso e persino confidenziale nelle melodie, rispetto all'ombroso Smoke Ring For My Halo, è altrettanto vero che in esso non vi è traccia alcuna di quella struttura-canzone che lo possa accostare, anche lontanamente, ai signori di cui sopra.

Imbambolato in un rimuginare di pensieri tra l'intimo e le tonalità più dark, Kurt Vile continua ad esprimere una voce troppo sghemba per abbracciare il rock'n'roll più diretto e stradaiolo. Ci sono sicuramente avvisaglie della sua maturazione come autore, un sentiero che guarda alla lezione di giganti quali Neil Young, tra il delicato mantra folk elettrico della stessa Wakin on a Pretty Daze e l'arcigno riff sulla direttiva Bowie-Reed di KV Crimes, ma in generale il disco si perde a volte in una nebbia strumentale che stiracchia i brani all'inverosimile (gli otto minuti di incantati arpeggi in Too Hard, gli oltre dieci di una Goldstone francamente estenuanti) e si arrovella intorno ad abbozzi di melodie e vaghi intrecci elettro-acustici con un fare pigro, autentico "laid back" direbbero gli americani. Quando l'approccio dei musicisti e del produttore John Agnello mantiene invece il flusso di coscienza di Vile entro certi limiti, anche di minutaggio, gli esiti acquistano un mood stralunato e affascinante (le acustiche Never Run Away e Pure Pain) che sancisce una dipendenza fortissima dal linguaggio di J Mascis (Dinosaur Jr) e Thurston Moore (Sonic Youth), tanto che giunti a Snowflakes Are Dancing si potrebbe anche nutrire qualche dubbio sull'identità del musicista in esame.

Forse il problema sta proprio qui, nell'impossibilità di scorgere tutta questa ventata di freschezza nel suo songwriting (potremmo giusto accennare ai leggeri rintocchi di elettronica in Was All Talk e Air Bud), e semmai di assistere ad una propaggine delle conquiste avvenute all'interno dell'underground rock americano a partire dalla metà degli anni 90. Viene voglia di ripescare Demolished Thoughts del citato Thurston Moore o magari il meno strombazzato (e ottimo) Between The Times and The Tides del collega Lee Ranaldo per mettere alle corde il buon Kurt Vile. Non che necessariamente le "vecchie glorie" siano sempre meglio dei giovani talenti (lungi da queste pagine il solo pensarlo), ma ogni tanto il senso delle proporzioni è sacrosanto.


     


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