Per inquadrare la personalità di Cass McCombs - tra i songwriter più sguscianti
della sua generazione; e stiamo parlando di una generazione che ha fatto dell'incatalogabilità
una bandiera ai limiti del cliché (i nomi? Conor Oberst, Sam Beam, Will Oldham...)
- per inquadrare McCombs, dicevamo, torna utile raccogliere i segnali sparsi nella
sua produzione recente. Il folk-rock di protesta di Bradley Manning, ad
esempio, un brano di ispirazione dylaniana del 2012 dedicato al noto informatico
militare accusato di alto tradimento ("Bradley, know you have friends, though
you're locked in there"), ci parla di un autore convinto che la pop music possa
tuttora rivestire un ruolo di coscienza critica. Ancora più significativi sono
i tre estratti dal film Sean
(1969) - un documentario di Ralph Arlyck su un bambino di quattro anni cresciuto
tra gli hippy di Haight Ashbury - piazzati lungo la scaletta di questo doppio
album Big Wheel and Others (il settimo, nel ruolino del suo autore).
La voce di Sean che discute di Dio ("There's no God around"), dei pellerossa ("The
whole world is the Indians' world, because they were here first") e dei poliziotti
("Do you think we need police?" "No") funziona da innocente controcanto alle vignette
di un'America disperata e cinica, popolata di eroi grotteschi e, al fondo, fragili,
delle canzoni di McCombs.
Il folksinger di Concord emana quest'aura da
beautiful loser, tipica del cinema americano della prima metà dei Settanta, un
hobo fuori tempo massimo, spinto ai margini dell'American Dream. Non a caso la
sua biografia racconta di una vita nomade, di notti passate a dormire in vecchie
auto e di viaggi in Greyhound. Le sue visioni, la sua musica, non sono che l'ultimo
capitolo di una mitografia (un racconto, cioè, capace di interpretare la realtà
e di inciderne sull'immaginario; un mito a cui però è negata qualsiasi dimensione
epica) che parte dal Joe Buck di Midnight Cowboy e dal Robert Dupea di Cinque
pezzi facili, passando per i drop out descritti nei film di Hellman (Strada a
doppia corsia) e Schatzberg (Lo spaventapasseri). Anche l'idea di un doppio album
è un anacronismo che riporta a quegli anni lì, su per giù. La musica, poi, non
fa nulla per suonare moderna, e fa anche poco per suonare vintage in senso modaiolo
e furbo.
Piuttosto, trova un punto di equilibrio tra il raccoglimento verso
le radici settantesche (Big Wheel, sporca
di blues e polvere del deserto; Angel Blood:
ricami di lap steel sul tessuto di malinconie country cosmiche; Aeon
of Aquarius Blues, memorabile folk song à la Townes Van Zandt; Honesty
is No Excuse, ovvero la cover dei Thin Lizzy che non ti aspetti) e le piroette
centrifughe verso un mondo indie/alternative trattato con brusca condiscendenza
(There Can Be Only One declina quella psichedelia
scazzata che fa la fortuna di Kurt Vile; Satan is My Toy, uno space-rock
avvolto a un groove drogato e funky, sa di Primal Scream; It
Means a Lot suona come una parodia della recente svolta smooth-jazz
di Iron & Wine). Le due versioni di Brighter,
una più country-soul, l'altra (con la voce della compianta Karen Black, l'indimenticata
Rayette di Cinque pezzi facili) più pop-oriented, epitomizzano i due poli di questo
equilibrio. Ammesso che gli importi qualcosa, McCombs potrebbe passare per l'anti-Wilson
(nel senso di Jonathan). Niente effetti speciali, niente lavoro in laboratorio
sui suoni per ricreare "in provetta" il profumo del passato. Solo una ventina
di canzoni, magari scorbutiche e, a volte, sfocate, magari anche un po' irritanti
(Everything Has to Be Just-so si trascina per 9 minuti, e almeno 6 sono
di troppo). Ma tutte, alla fin fine, con qualcosa di interessante da dire.