Al primo album ci eravamo innamorati quasi tutti: per l'aspetto genuino, per la
freschezza di un folk-rock da adolescenti col cuore in mano, per uno stile dove
anche gli spigoli sembravano smussati dai soffi del vento di primavera. Nei pressi
dell'opera seconda, invece, erano subentrati disillusione e irrigidimento: per
canzoni sin troppo spoglie e accorate, per una certa monotonia di fondo, per la
sensazione di assistere al ripetersi, come sempre meno avvincente, di una storia
già vissuta con tutt'altro sentimento. È al terzo disco che la canadese Basia
Bulat riesce a centrare completamente il bersaglio: non solo Tall Tall
Shadow possiede, intatte, la spontaneità Oh, My Darling (2007) e la malinconia
del successivo Heart
Of My Own ('10), ma riesce a inscriverle in un'intelaiatura sonora
complessa eppure mai invadente (anzi, sempre perfettamente al servizio delle canzoni),
contrassegnata in proporzioni paritetiche da una ritrovata felicità di scrittura
e da un'inedita voglia di sperimentare e mettersi alla prova per quanto riguarda
gli arrangiamenti, mai così variegati benché, al tempo stesso, mai invadenti o
artificiosi.
Impacchettato a sei mani dalla stessa Bulat, Tim Kingsbury
e Mark Lawson (rispettivamente, bassista e produttore degli Arcade Fire), Tall
Tall Shadow, pur non rinunciando a citare affettuosamente due veri e propri punti
di riferimento formale come Joni Mitchell e Tracy Chapman (ispiratrici pressoché
uniche di una delizia semiacustica intitolata Paris Or
Amsterdam), costruisce le proprie suggestioni sulla base di un suono
ricco di contrasti, sfumature e chiaroscuri. La chiave del cambiamento si trova
nella foto di copertina, un bianco e nero quasi funereo dopo le immagini ora luminosissime
ora bucoliche dei lavori precedenti, e subito dopo nell'efficace alternarsi fra
rock quasi classico nello spirito di Natalie Merchant (la title-track, con una
menzione di riguardo per i tamburi punkeggianti del fratello Bobby Bulat), incalzanti
gioielli pop che ricordano da vicino la grinta melodica dei Fleetwood Mac di Stevie
Nicks e Lindsay Buckingham (Wires, bellissima)
e deviazioni di percorso tanto inattese quanto emozionanti e coinvolgenti (impossibile
non lasciarsi trasportare, e pure commuovere un po', dal violino che trafigge
il fondale elettronico di Someone).
L'essenzialità
ritorna nel folk austero alla Josephine Foster di It
Can't Be You, dove la Bulat ricorre soltanto al suo inconfondibile
vibrato e all'accompagnamento del charango andino (una specie di ukulele), e nello
spiritual moderno di Never Let Me Go, con otto voci diverse a congiungersi
con l'autoharp della padrona di casa, ma ancora una volta si tratta di una scelta
di eleganza e stile, non di un semplice arretramento verso la concisione tradizionalista
degli esordi. Promise Not To Think About Love,
dominata da fiati, percussioni e battimani, potrebbe essere il brano più accessibile
della raccolta, The City With No Rivers, sinistra coda di synth distesa
sul violoncello di Anissa Hart e la viola di Allison Stewart, quello più cupo
e impegnativo. Oppure potrebbero essere le due facce di una stessa medaglia fatta
di luci e ombre, di gioia e dolore, di fughe e ripensamenti. È presto per dire
se Tall Tall Shadow, in futuro, sarà considerato quale simbolo di svolta nella
carriera dell'artista. Ma non c'è bisogno di molto altro, sin da ora, per immaginare
che lo ricorderemo come il disco in cui Basia Bulat ha imparato a esprimere tutte
le sue anime, e, così facendo, a parlare alle nostre.