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Built to Spill
When The Wind Forgets Your Name
[Sub Pop 2022]

Sulla rete: builttospill.com

File Under: Let there be (alternative) rock


di Yuri Susanna (09/09/2022)

Difficile scovare un’altra band che abbia saputo tenere per trent’anni (l’esordio discografico è del 1993, quindi l’anno prossimo ci sarà di che festeggiare) un livello produttivo costantemente elevato come i Built to Spill di Doug Martsch. Forse, attraversando l’Atlantico, solo gli scozzesi Teenage Fanclub potrebbero vantare una carriera altrettanto limpida sulla lunga distanza. Un’avventura, quella dei Built to Spill, incominciata nei garage di Boise, capoluogo di uno degli stati meno prolifici in termini di contributi alla storia del rock (la gloria locale è la cantante country e reginetta di bellezza degli anni ’50 Judy Lynn), vale a dire l’Idaho. Per fortuna nel vicino stato di Washington tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del decennio seguente qualcosa stava accadendo (Seattle vi dice niente?) ed evidentemente le orecchie di Martsch erano abbastanza aperte da spingerlo a pensare che i tempi fossero maturi per coniugare il suo amore per il Neil Young elettrico con il verbo alternative rock allora in via di affermazione.

In origine i Built to Spill avrebbero dovuto essere una sorta di gruppo aperto, con una formazione diversa disco dopo disco, ma le cose andarono diversamente: dopo la firma con la Warner che portò al classico Perfect from Now On nel 1997, la line-up rimase praticamente inalterata fino al 2012, con il basso di Brett Nelson, i tamburi di Scott Plouf e la seconda chitarra di Brett Netson ad assecondare le galoppate chitarristiche del leader. Scusateci se ci prodighiamo in questo breve excursus storico, ma cercando in archivio abbiamo scoperto che è la prima volta che su Rootshighway si recensisce un album dei Built to Spill, e ci siamo sentiti in dovere di pagare pegno alla grandezza di Martsch e della sua creatura. Almeno tre dischi della band (oltre al già citato Perfect, anche There’s Nothing Wrong with Love e Keep it Like a Secret) brillano tra le cose migliori che la scena alternative abbia mai partorito, e anche nel resto della produzione non è che manchino le gemme, più o meno nascoste.

Il penultimo disco di inediti, Untethered Moon, uscito nel 2015, marcava il ritorno all’idea originaria di dare per ogni disco un volto diverso alla band. Ora, sette anni dopo (ma il progetto si è avviato nel 2019 e ha subito i rallentamenti che si possono immaginare causa pandemia), esce questo When the Wind Forgets Your Name, in cui Martsch si fa accompagnare da due musicisti brasiliani del gruppo psichedelico Oruã. Se Unthetered Moon poteva alimentare qualche sospetto di cedimento alla routine, quest’ultimo album segna invece un netto ritorno di forma. Il contributo di Lê Almeida (batteria) e João Casaes (basso) infonde linfa e freschezza nel songwriting di Martsch, che mette insieme un set di canzoni vario e godibile, in cui il feedback delle chitarre lambisce territori stoner (Gonna Loose) per poi accogliere nel suo seno variazioni lisergiche (la sognante Fool’s Gold, la singhiozzante Spiderweb, le trame byrdsiane di Alright) e svisate ritmiche (Rocksteady), abbandonandosi quando è il momento a un power pop dai sapienti ganci melodici (Understood) e suggellando il viaggio con uno dei migliori omaggi allo spirito dei Crazy Horse che ci sia capitato di ascoltare a ovest dei Dinosaur Jr (Comes A Day). Modo migliore di festeggiare un trentennale non si poteva trovare.


    


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