E' un bravo ragazzo, Torgeir
Waldemar. Non fatevi fuorviare dalla posa ombrosa e dal look da biker
scandinavo accigliato che vi osserva dalle fotografie promozionali del
suo ultimo (e terzo, per la cronaca) album. Waldemar è cresciuto con un’indefessa
fede nel rock, a cui ha dedicato gli anni della giovinezza suonando in
una band norvegese di discreta fama locale, finché, raggiunto il mezzo
del cammin di nostra vita, si è tagliato una carriera solista su misura
che gli sta regalando più di una soddisfazione. Il primo omonimo disco,
classica opera da troubadour, è stato nominato per il corrispettivo norvegese
dei Grammy (categoria country, pensa te) e il secondo,
più elettrico, ha risvegliato l’attenzione anche dei media anglosassoni.
La terza fatica, proverbialmente la più difficile, non sembra in realtà
averlo intimorito più di tanto. Love è un disco registrato
in scioltezza, che fa della natura da jam psichedelica delle sue composizioni
(tutte abbondantemente sopra i sei minuti, tolti alcuni brevi interludi
acustici) la sua forza, confessando la matrice di un rock deja vu che
guarda alla stagione californiana, tanto per cambiare, e acchiappa la
coda di uno dei tanti revival dell'ultimo decennio.
Un bravo ragazzo, dicevamo.
Waldemar ha lavorato in un centro per il recupero dalle tossicodipendenze,
è attento alle problematiche sociali e ambientali, manca solo di vederlo
presso i semafori in attesa di vecchiette a cui fare attraversare la strada.
No Offending Borders lanciava strali contro la politica migratoria
repressiva del governo norvegese, mentre Love, fin dal titolo,
si presenta come un disco di intonazione privata. In realtà dell'amore,
a Waldemar, interessano anche e soprattutto i risvolti collettivi: così
si spiega l'accorato grido d'allarme ecologista della conclusiva, sciamanica
(e pure epica, nelle dimensioni: 14 minuti e 40 secondi) Black
Ocean. Credo che abbiate inquadrato a sufficienza il personaggio.
Comunque la pensiate, non c'è però bisogno di condividere la sua stessa
visione del mondo per apprezzare Love: al di là della ingenuità
delle liriche (sicuramente non il punto di forza dell'album, per usare
una litote) c'è di che compiacersi, all'ascolto dei 5 brani che lo compongono,
soprattutto se apprezzate il country rock psichedelico messo a fermentare
nell'acido delle chitarre.
Se avete pensato: Neil Young,
non avete sbagliato. E' il canadese la stella polare che guida l'ispirazione
di Waldemar, declinato sia nella versione con i Crazy Horse (la melodia
deragliata dalle chitarre di Heart and Gold, il folk-rock agro
di Contagious Smile) sia in quella ad alto tasso armonico dell'era
CSN&Y (Leaf in the Wind). Ma se il disco precedente suonava molto
ortodosso nell'adesione al culto del "cavallo pazzo", quest'ultimo lascia
intravedere altre fonti di ispirazione (per esempio il buon John Cipollina
con i suoi Quicksilver) e qualche deviazione - come il tentativo di coniugare
la psichedelia di Haight Ashbury e il jazz astrale di Sun Ra in Truncated
Souls - ma più o meno tutte racchiuse in un tempo (diciamo
1967-1973) e in un luogo (tra San Francisco e il Laurel Canyon) ben determinati.
Se credete che Jonathan Wilson sia stato mandato a salvare il rock, allora
prestate ascolto anche alla predicazione di Torgeir Waldemar, uno dei
suoi apostoli più convinti.