The Dream Syndicate
The Universe Inside

[Anti- 2020]

thedreamsyndicate.com

File Under: the sound of the air

di Fabio Cerbone (13/04/2020)

In tempi di beata follia psichedelica e caos organizzato, eravamo al tramonto dei sixties, un Bob Weir evidentemente su di giri, in attesa di registrare con i Grateful Dead l’album Anthem of the Sun, entrava in studio e chiedeva seriamente al produttore Dave Hassinger di catturare “il suono dell’aria pesante”. Deve essere andata pressappoco così, magari con meno sostanze illegali in circolo, quando i Dream Syndicate hanno lasciato partire i nastri in piena libertà, ottanta minuti di improvvisazione. Dall’immersione ne sono risaliti con The Universe Inside, il loro disco più spiazzante, a ribadire, ove ce ne fosse bisogno, che non sono tornati per un secondo tempo da vecchie glorie a caccia di premi e posizioni di rendita.

Infatti, se il rientro sulle scene di How Did I Find Myself Here? era un modo per riconoscersi, partendo dal punto esatto in cui la storia si era interrotta, se il successivo These Times lanciava già nuove accattivanti sfide sonore e indicava un percorso inedito, oggi The Universe Inside è un ponte gettato verso l’ignoto, nonché una dimostrazione di vitalità che Steve Wynn e soci agguantano con un senso di temeraria sperimentazione, anche a rischio di apparire qualche volta troppo indulgenti con se stessi. Niente male per un gruppo di “veterani” che potrebbe godersi la pensione. E invece arrivano cinque brani cinque, per un’ora di taglia e cuci che sembra ispirato dalla mente di William Burroughs, dove il momento più “canonico” è rappresentato dai sette minuti e mezzo di The Longing, ballata bluastra e urbana che ricorda i migliori passaggi del Wynn in abiti solisti.

Il resto veleggia tra i venti minuti dell’introduzione monstre con The Regulator (da accompanarsi indissolubilmente al video newyorkese firmato da David Daglish) e i dieci abbondanti della chusura astratta con The Slowest Rendition, letteralmente inabissati in un tour de force, spesso senza soluzione di continuità tra un brano e l’altro, nel quale i Dream Syndicate ci trascinano nel loro vortice sonoro. La sezione ritmica composta da Mark Walton e Dennis Duck si sfalda e si ricompatta nell’arco della stessa traccia, Chris Cacavas manipola suoni e tastiere, felice come un bambino in un negozio di dolciumi, Jason Victor riversa scie elettriche alla sei corde e lo stesso Wynn canta lo stretto necessario, a volte addirittura camuffando la voce. Perché qui più che di forma canzone dovremmo parlare di stati (alterati) d’animo musicali, una colonna sonora fatta di rock psichedelico e futuribile nel quale entrano in campo suggestioni elettroniche, vampe free jazz e progressive, ossessivi ritmi kraut rock e code funk, Miles Davis a braccetto con i Can, una pentola in ebollizione costante.

Tutto ciò con il pericolo di perdere la bussola, giacché seguire i movimenti sinuosi della citata The Regulator (in mezzo spunta anche il sitar dell’amico Stephen McCarthy dai Long Ryders), e la stessa voce di Steve Wyn registrata dentro un telefono (così è avvenuto, sul serio) richiede una predisposizione all’azzardo. E proprio a questa sfida siamo chiamati dai Dream Syndicate, che ci invitano a mollare qualsiasi convinzione: Apropos of Nothing si dipana, rallenta e riacquista il passo tra onde continue di psichedelia incalzante, sfumando poi nella successiva lava di Dusting Off The Rust, dove ricopre un ruolo fondamentale (in lungo e in largo è una presenza che emerge per l’intero disco) il membro aggiunto Marcus Tenney, con sax e tromba a dettare uno strano ibrido fra jazz elettrico, funkadelica e progressive rock, disgregandosi infine nelle trame notturne e afose della conclusiva The Slowest Rendition, mentre albeggia il giorno sulla città.

“Tutto quello che abbiamo aggiunto era aria”, ha commentato Steve Wynn giunti alla fine dell’esperimento di The Universe Inside: allora aveva ragione quell'hippie di Bob Weir!


    


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