In tempi di beata follia
psichedelica e caos organizzato, eravamo al tramonto dei sixties, un Bob
Weir evidentemente su di giri, in attesa di registrare con i Grateful
Dead l’album Anthem of the Sun, entrava in studio e chiedeva seriamente
al produttore Dave Hassinger di catturare “il suono dell’aria pesante”.
Deve essere andata pressappoco così, magari con meno sostanze illegali
in circolo, quando i Dream Syndicate hanno lasciato partire i nastri
in piena libertà, ottanta minuti di improvvisazione. Dall’immersione ne
sono risaliti con The Universe Inside, il loro disco più
spiazzante, a ribadire, ove ce ne fosse bisogno, che non sono tornati
per un secondo tempo da vecchie glorie a caccia di premi e posizioni di
rendita.
Infatti, se il rientro sulle scene di How
Did I Find Myself Here? era un modo per riconoscersi, partendo
dal punto esatto in cui la storia si era interrotta, se il successivo
These
Times lanciava già nuove accattivanti sfide sonore e indicava
un percorso inedito, oggi The Universe Inside è un ponte gettato
verso l’ignoto, nonché una dimostrazione di vitalità che Steve Wynn e
soci agguantano con un senso di temeraria sperimentazione, anche a rischio
di apparire qualche volta troppo indulgenti con se stessi. Niente male
per un gruppo di “veterani” che potrebbe godersi la pensione. E invece
arrivano cinque brani cinque, per un’ora di taglia e cuci che sembra ispirato
dalla mente di William Burroughs, dove il momento più “canonico” è rappresentato
dai sette minuti e mezzo di The Longing,
ballata bluastra e urbana che ricorda i migliori passaggi del Wynn in
abiti solisti.
Il resto veleggia tra i venti minuti dell’introduzione monstre
con The Regulator (da accompanarsi
indissolubilmente al video
newyorkese firmato da David Daglish) e i dieci abbondanti della chiusura
astratta con The Slowest Rendition, letteralmente inabissati in
un tour de force, spesso senza soluzione di continuità tra un brano e
l’altro, nel quale i Dream Syndicate ci trascinano nel loro vortice sonoro.
La sezione ritmica composta da Mark Walton e Dennis Duck si sfalda e si
ricompatta nell’arco della stessa traccia, Chris Cacavas manipola suoni
e tastiere, felice come un bambino in un negozio di dolciumi, Jason Victor
riversa scie elettriche alla sei corde e lo stesso Wynn canta lo stretto
necessario, a volte addirittura camuffando la voce. Perché qui più che
di forma canzone dovremmo parlare di stati (alterati) d’animo musicali,
una colonna sonora fatta di rock psichedelico e futuribile nel quale entrano
in campo suggestioni elettroniche, vampe free jazz e progressive, ossessivi
ritmi kraut rock e code funk, Miles Davis a braccetto con i Can, una pentola
in ebollizione costante.
Tutto ciò con il pericolo di perdere la bussola, giacché seguire i movimenti
sinuosi della citata The Regulator (in mezzo spunta anche il sitar
dell’amico Stephen McCarthy dai Long Ryders), e la stessa voce di Steve
Wyn registrata dentro un telefono (così è avvenuto, sul serio) richiede
una predisposizione all’azzardo. E proprio a questa sfida siamo chiamati
dai Dream Syndicate, che ci invitano a mollare qualsiasi convinzione:
Apropos of Nothing si dipana, rallenta e riacquista il passo tra
onde continue di psichedelia incalzante, sfumando poi nella successiva
lava di Dusting Off The Rust, dove
ricopre un ruolo fondamentale (in lungo e in largo è una presenza che
emerge per l’intero disco) il membro aggiunto Marcus Tenney, con sax e
tromba a dettare uno strano ibrido fra jazz elettrico, funkadelica e progressive
rock, disgregandosi infine nelle trame notturne e afose della conclusiva
The Slowest Rendition, mentre albeggia il giorno sulla città.
“Tutto quello che abbiamo aggiunto era aria”, ha commentato Steve
Wynn giunti alla fine dell’esperimento di The Universe Inside: allora
aveva ragione quell'hippie di Bob Weir!