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The Mountain Goats
Getting into Knives
[Merge records/ Goodfellas 2020]

Sulla rete: mergerecords.com

File Under: indie rock-folk


di Domenico Grio (23/11/2020)

John Darnielle, da venticinque anni unico intestatario del progetto Mountain Goats, è un piccolo genio che da sempre vive sottotraccia, troppo schivo ed intelligente per concentrare i propri sforzi verso irrituali meccanismi di facilitazione intellettuale. Ne eravamo quasi certi al tempo dei suoi esordi discografici, quando avevamo imparato a destreggiarci tra costruzioni letterarie intriganti e tra l’essenzialità di un rock-folk molto intrigante, a volte sovra-strutturato, a volte disincentivato dalla posa in opera di un low-fi domestico e strapovero, ne siamo sicuri più che mai adesso dopo aver assistito allo sviluppo di una carriera brillantemente anarchica ma anche assiduamente fedele ad un pensiero coerente, profondo e vitale.

Getting Into Knives, lo diciamo senza enfasi e senza paura, è un gioiello, l’ennesimo. Cancella di schianto gli ultimi due, comunque degnissimi, episodi, quel In League With Dragons (2019) che indugiava su toni epici e immaginifici e quel Songs for Pierre Chuvin (aprile 2020) che invece riproponeva l’omogeneità impressionista dei bozzetti sporchi e minimali dell’antica boombox a bobine, romantico appiglio ai fasti di una civiltà analogica destinata purtroppo al declino. Per arrivare a questo album, che trascina nuovamente la rutilante narrazione folk dei Mountain Goats in un raffinato ambito modernista, John ribalta approcci, strategie ed umori. Conferma la collaborazione con Peter Hughes (basso), Matt Douglas (chitarre e tastiere) e Jon Wurster (batteria), aggiunge al team Charles Hodges, storico organista di Al Green e trasferisce tutti da Nashville al Sam Phillips Recording di Memphis, un posto dove aleggia lo spirito guida di Elvis e volteggiano i fantasmi di Johnny Cash e di Roy Orbison. Mette da parte ogni vecchia suggestione, punta ancora più deciso sulla fedeltà e la ricchezza dei suoni, sulla linearità e pulizia delle idee e smantella le tematiche più bizzarre, alternando passaggi esistenzialisti ed immagini poetiche, legate all’immanenza della fine, a visioni fredde ed estemporanee.

Tutto suona molto accogliente, sapientemente levigato perchè è così deve essere. Ognuno dei tredici brani di questo disco è destinato a luccicare, a dipanarsi all’interno di una produzione, affidata a Matt Ross-Spang, che ha scientemente deciso di maneggiare l’impianto rootsy mettendo al bando ruggine e spigoli. Il gioco è molto vario e regge benissimo sin da subito. C’è il rockabilly in salsa post-punk di Corsican Mastiff Stride, il funky di Get Famous, Picture of My Dress che riesuma il sound dei Mojave Tree e As Man Candles As Possible che ripete la formula prog-rock dai toni epici da sempre in uso alla band. C’è persino il drum & bass di Tidal Wave, a cui segue il delizioso acquerello folk di Pez Dorado e The Last Place I Saw You Alive, prova d’autore dall’ordito jazz. Per arrivare alla romantica effervescenza di Bell Swamp Collection e di Wolf Count, al rock un po’ alla Cracker di Rat Queen, alle raffinatezze stilistiche di Harbour Me e, infine, alla title track, altro adorabile capitolo new folk che ci lascia appesi al vellutato luccichio dell’organo di Al Green.

È vero, la rustica imperfezione dei nastri, del “faidate” dei primi lavori, aveva ed ha tutt’oggi un suo fascino speciale ma il cambio di prospettiva che può offrire la tecnologia in mano a chi sa cosa farsene, riesce a produrre un’esperienza che sa riempire cuore e mente e che, nel nostro caso, meglio consente a questi brani di sprigionare la loro forza purificatrice, indirizzando verso la superficie tutti coloro che, secondo John, si sono fatti sommergere dalle acque e che rischiano di affogare sotto l’inevitabile peso della perdita e, adesso più che mai, della paura di un futuro negato.


    


<Credits>