Big Thief
U.F.O.F. + Two Hands

[4AD 2019]

bigthief.net

File Under: Dal tramonto all’alba

di Nicola Gervasini (10/12/2019)

Negli anni Sessanta era più che normale che una band pubblicasse due (e anche più) dischi nello stesso anno, sia perché il periodo di vita commerciale di un disco era stimato in tre mesi al massimo (sei mesi se proprio aveva successo), sia perché spesso i brani erano registrati in pochi giorni e con pochi interventi produttivi successivi. Per questo motivo, è particolare che una band come i Big Thief, esordienti di ottime speranze solo poco tempo fa con gli album Masterpiece (2016) e Capacity (2017), abbiano pubblicato quest’anno una doppietta a pochi mesi di distanza, a dimostrazione della loro crescita e del fatto che sono sicuramente una delle realtà “nuove” più interessanti del momento. U.F.O.F. è uscito il 3 maggio, Two Hands l’11 ottobre, eppure non sono due dischi nati dalle stesse sessions, e si sente.

U.F.O.F.
(in teoria sarebbe un acronimo medico che sta per Uniocular Fields of Fixation, ma loro ci hanno giocato trasformando UFO - Unidentified Flying Object – aggiungendoci la parola Friend, per cui il senso corretto è “Fare amicizia con l’ignoto”) nasce infatti a Washington, e quando è uscito è stato acclamato un po’ ovunque come il loro disco della maturità, con l’intreccio tra la voce di Adrianne Lenker e le chitarre di Buck Meek che raggiunge in certi pezzi una nervosa tensione, che in qualche modo me li fa vedere come gli eredi spirituali dei Mazzy Star. L'album possiede anche un mood alquanto tetro, occhieggia allo slowcore in brani come Contact o Open Desert, e si apre al pubblico solo in rari casi come Strange o Century, aggiungendo ad un mix certo non inedito e innovativo un tocco “indie” tutto loro. Di altro registro è invece Two Hands, che rappresenta quasi una happy side del predecessore, e che la band stessa ha presentato come “the earth twin”, sottolineando lo spirito terreno delle nuove canzoni rispetto a quelle di U.F.O.F, le quali, in un certo senso, rimanevano sospese nell’aria.

Le registrazioni sono avvenute in un ranch del Texas, e forse anche questa ambientazione ha portato a recuperare molto delle loro radici “roots” che in U.F.O.F rimanevano solo accennate. Registrato in presa diretta dal fedele produttore Andrew Sarlo, i dieci brani scorrono leggeri, con il picco di Forgotten Eyes e del lungo primo singolo Not. A questo punto, logico che sia nata la questione tra i fans su quale sia il disco da mettere poi nelle classifiche di fine anno, forse equamente divisi tra chi preferisce la spessa nebbia che ammanta U.F.O.F o il sapore più ruspante e scanzonato di Two Hands. Da parte nostra in mezzo a tante nuove uscite che seguono partiture già scritte, fa piacere ritrovare nei Big Thief una realtà al momento talmente in stato di grazia da poter pensare due dischi così diversi in poco tempo, quasi a dire che per differenziarsi oggi non bisogna inventarsi uno stile (difficile riuscirci ormai), quanto saper maneggiare più registri contemporaneamente, e per una band che in studio non si fa aiutare da session-men e collaborazioni esterne, questo diventa davvero un punto di merito non indifferente.


   


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