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fusion di
Yuri Susanna (29/03/2016)
La
mescola di folk inglese e musica indiana non è poi una grande novità, se già alla
metà dei Sessanta una figura paradigmatica per tutto il folk revival a venire
come Davey Graham (uno verso il quale John Renbourn, Bert Jansch, John Martyn
e magari anche Jimmy Page hanno negli anni contratto un debito infinito) aveva
intuito che le scale tonali dei raga indiani si potevano sposare alle armonie
folk tradizionali britanniche (con una manciata di blues e jazz a legare il tutto,
magari). Questo ben prima che anche il mondo del pop banalizzasse in chiave mistico/modaiola
la scoperta dell'Oriente e ci vendesse come massimo dell'esotismo il sitar nei
dischi di Beatles e Stones. In più di dieci anni di pubblicazioni a suo nome,
lo scozzese James Yorkston si è fatto una reputazione seria e rispettabile,
seppur sul versante indie del rinascimento folk britannico, che lo mette al riparo
da sospetti di operazioni furbe o estemporanee. Non stupisce quindi che il suo
incontro con la musica classica indiana muova da presupposti di rigore e profondità
comunicativa, come sono lì a testimoniare i lunghi 13 minuti e oltre dell'iniziale
Knochentanz: la melodia del sarangi (strumento
tradizionale a corda, di cui Suhail Yusuf Khan è maestro) serpeggia in una sorta
di trance meditativa intrecciandosi agli arpeggi modali della chitarra di Yorkston,
mentre il basso di Jon Thorne (ex Lamb e già collaboratore del folksinger
scozzese) funge da collante tra i diversi movimenti del brano.
Porre una
composizione difficile come questa, quasi interamente strumentale, a inizio disco
è un po' come mettere un nerboruto buttafuori all'ingresso di un locale: un avvertimento
per i malintenzionati. Chi non è disposto a dedicare la giusta attenzione a quello
che viene offerto, si rivolga altrove. Andando avanti si scoprono invece momenti
più accessibili, le derive strumentali si fanno più contenute, e non mancano canzoni
dalla struttura definita e fruibile, debitrici più della tradizione folk progressiva
inglese che della musica indiana. Come la filastrocca di Little
Black Buzzer, tratta da uno dei tre cult-album registrati dal poeta
scozzese Ivor Cutler a metà anni Settanta, e qua arrangiata come fosse un brano
dell'Incredible String Band, oppure la cover di Song for Thirza, canzone
di Lal Waterson che Yorkston trasforma in uno dei suoi tipici acquerelli folk
umbratili. In entrambi, la voce di Lisa O'Neill (folksinger irlandese di buone
speranze, già vista all'opera con Glen Hansard) crea un utile contrappunto. Nei
brani originali la ricerca di spiritualità prende il sopravvento, come nella meditazione
sulla morte che intitola il disco, ispirata dalla scomparsa per cancro del bassista
degli Athletes (la band di Yorkston) Doogie Paul. A lui era dedicata anche Broken
Wave, una canzone del suo precedente disco, che ora viene ripresa in
una versione sofferta e minimale.
Le altre composizioni originali hanno
il tono delle improvvisazioni controllate, un dialogo a tre voci in cui ognuno
contribuisce con il proprio linguaggio specifico, amalgamando le individualità
alla ricerca di un ibrido che suoni diverso dalla semplice somma delle parti.
All'insegna di una dimensione spirituale, trascendente, che in musica è certo
più facile dichiarare che raggiungere veramente. Ne è la prova il brano di Khan,
Sufi Song, in cui la spiritualità suona un
po' "telefonata", se ci passate il termine da gergo calcistico. Un'opera difficile
ma certo non priva di fascino. Un'idea di fusion tra culture diverse che ha il
solo difetto di trascurare la dimensione ludica dell'incontro con l'altro, e di
indulgere a una serietà e a un rigore a volte eccessivi (i sette minuti finali
di Blues Jumped the Goose sono emblematici, in questo senso). Niente di
male, ma ritenetevi avvertiti: se cercate qualcosa su cui ballare o fare air-guitar,
passate pure alla prossima recensione.