Giant Sand
Heartbreak Pass
[
New West
2015]

www.howegelb.com

File Under: Gelb & friends

di Fabio Cerbone (11/05/2015)

Strano a dirsi, ma nella perenne girandola di sostituzioni che ha contraddistinto l'avventura dei Giant Sand, l'ultima incarnazione della band è a conti fatti una delle più stabili. Heartbreak Pass perfeziona dunque l'intesa con quel manipolo di musicisti danesi, gli stessi che hanno dettato la nuova linea a partire da dischi sottovalutati come Pro-visions, fino all'opera omnia sul suono del deserto, il luccicante Tucson. A differenza di questi ultimi però, il nuovo capitolo si presenta anche come una parata di collaborazioni, che sulla carta rischia di offuscare il lavoro di squadra: si segnalano fra gli altri Jason Lytle dei Grandaddy, Steve Shelley dei Sonic Youth, Grant-Lee Phillips e persino il nostro Vinicio Capossela. Non è così per il semplice fatto che questa stralunata creatura musicale rimane una scusa per liberare il songwriting di Howe Gelb, ormai deus ex machina dei Giant Sand, il quale alterna dischi solisti e prove d'orchestra senza una vera linea di discontinuità.

Festeggia il trentennale dagli esordi con una raccolta che a suo dire mette insieme quindici canzoni e tre differenti porzioni della sua sensibilità artistica, tutti volti a narrare la doppia vita del musicista. C'è senso di spaesamento nei suoi solchi, tracce di un percorso "on the road", momenti in cui l'artista non riesce più a distinguere le sue radici e il suo passato, sballotatto al traino delle canzoni. Sarà per questo che il disco è stato catturato letteralmente ai quattro angoli del mondo, da Brussels a Nashville, dall'amata Tucson a Berlino, passando per l'Italia (e qui registrando con i Sacri Cuori). L'effetto è straniante, eppure l'anima musicale di Howe Gelb non è cambiata affatto: è ancora un coacervo di ballate country bislacche, bozzetti folk zoppicanti e interferenze che passa in rassegna tradizione e rock a bassa fedeltà. Si parte con il blues lunare di Heaventually (il controcanto, quasi recitato, è di Capossela), si passa attraverso una specie di rivitazione in chiave indie rock di Satisfaction (provate a scavare nel riff di Texting Feist) e scampoli di un nervoso rock'n'roll di frontiera (Hurtin' Habit), importunato da giochini elettronici (la Transponder in coppia con Jason Lytle) per approdare alla sabbia dell'Arizona e agli orizzonti rosso fuoco di Song So Wrong e della melodia mariachi di Every Now And Then.

E se tutto suonerà come già sentito e perfettamente in linea con la poetica di Gelb non facciamogliene una colpa: dopo trent'anni un briciolo di accademia, anche da uno che ha fatto dello sberleffo e dello spiazzamneto continuo la sua linea di demarcazione, possiamo accettarlo. Heartbreak Pass sarà comunque un'altra delle opere essenziali del suo catalogo: tra la steel guitar di Maggie Bjorklund, i controcanti femminili di Lonna Beth Kelley e persino la fugace comparsa dell'ex Paula Jean Brown o l'apporto dell'amico John Parish (che ha curato anche il missaggio), l'album illustra l'intero universo del musicista dell'Arizona, i suoi giochi sui riverberi vocali, le cavalcate western (Man On A String) e l'Americana di cui è stato uno dei più acuti sabotatori (Home Sweat Home), gli svolazzi pianistici tra garbo jazz (una deliziosa Done) ed eleganza da colonna sonora (Pen To Paper, Gypsy Candle). Che sia uno spettacolo da one man band camuffato oppure una vera e propria opera collettiva, Heartbreak Pass suona comunque più interessante di tutti quelli che hanno provato a ricalcare, senza riuscirvi, lo stile imprevedibile di Gelb.


    


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