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Stiv's fun house di
Fabio Cerbone (18/11/2014)
Ennesimo
cambio di direzione musicale per Stiv Cantarelli e i suoi Silent Strangers.
Un tuffo nelle crepe del rock'n'roll più sordido questo Banks of the Lea,
frutto del viaggio londinese della band, che negli studi Gizzard del quartiere
di Hackney Wick, East London imprimono una sterzata alle fondamenta del loro suono.
Un anno e mezzo è passato dall'interessante esordio in casa Stovepony con Black
Music/ White Music e le coordinate di quell'acido folk blues hanno
preso le sembianze di un virulento garage rock, dove l'aria british non deve essere
stata indifferente nella resa finale. Un dato è certo, Cantarelli è uno dei musicisti
italiani più interessanti e meno chiacchierati fra chi segue l'ostinata direzione
della lingua inglese e di un percorso di corteggiamento delle radici del rock'n'roll.
Se il suo isolato gemito solista, Innerstate,
registrato con gli amici Richmond Fontaine, era una sorta di chiarimento delle
ispirazioni folk americane (ricordiamo che il suo viaggio era cominciato con l'alternative
country dei Satellite Inn), se il citato Black Music/ White Music spostava l'obiettivo
verso una musica più sporcata di psichedelia e "follie" blues assortite, oggi
Banks of the Lea, inciso con la collaborazione del produttore Peter
Bennett (Monkey Island) e dell'ingegnere del suono Ed Deegan (Billy Childish,
The Fall, The Cribs) fa letteralmente esplodere una malcelata spigolosità, che
è sempre esistita nella musica di Stiv Cantarelli. Non ho sotto mano i testi di
questo nuovo capitolo discografico, ma credo di intuire la scura identità delle
canzoni, quanto meno riflesse nel loro suono abrasivo e spesso travolgente. The
Streets è il primo manifesto: pare di stare nel mezzo di una jam di
studio con i Mudhoney e il senso di marcia è già impresso. Il trittico iniziale
è il più spudorato in tal senso: in Frenzy
e Jason Hit the City il sax fragoroso di Roberto
Villa è l'elemento aggiunto, che sposta la bilancia verso i bassifondi degli Stooges,
l'irruenza punk blues dei Gun Club, ma volessimo restare in Inghilterra, dove
Banks of the Lea ha preso forma, dovremmo citare i Gallon Drunk.
La voce
a volte inquieta, nevrotica di Cantarelli è l'ideale spalla di queste sonorità,
che sembrano dilatarsi nell'introduzione di Razor/ Pistol, salvo impazzire
dopo due minuti e mezzo di canzone. Sasha interrompe per un attimo la cacofonia
rock con qualche spunto persino roots, una slide dai sapori blues che spalleggia
un pianoforte e riporta agli Stones alticci di Beggars Banquet. È un breve istante
e fugge al primo vibrare di Arrogance Blues,
dove torna a spadroneggiare il sax e le chitarre riprendono a gracchiare, prima
di esplodere definitivamente nella velenosa Lacalifornia,
materiale elettrico travolgente che insieme a Soul Seller piacerebbe davvero
ai citati Mudhoney, i quali, sarà soltanto una suggestione del recensore, sembrano
una stella polare di questo lavoro. Album che, dopo tanta asprezza, si chiude
sulle note dilatate e i feedback di una notturna e minacciosa Before
I Die. Rock vecchia scuola visti i tempi, rabbia sempre attuale.