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Austin
cult heroes di
Davide Albini (28/09/2013)
Sappiamo bene come Austin, in fatto di roots music e dintorni, sia una sorta di
Mecca, meglio ancora un'isola felice dove creatività e business, spontaneità e
marketing riescono a trovare un punto di equilibrio: tradizione e novità spesso
si fondono, offrendo il meglio che l'american music abbia da proporre. TheResentments sono a modo loro un prodotto esemplare di questo mondo, delle
piccole star locali diciamo così, mai veramente assurti a livello nazionale, eppure
in grado di attirare le attenzioni anche del circuito roots europeo (da anni la
Blue Rose pubblica i loro lavori) soltanto grazie al loro pedigree musicale. Per
essere nati come una band da "dopolavoro" al Saxon Pub di Austin, The Resentments
ne hanno fatta di strada: cinque dischi di studio a partire dal 2004, ai quali
si aggiungono numerose sortite live, che l'etichetta tedesca ha sempre generosamente
offerto al pubblico, anche quando la qualità non era sempre all'altezza della
loro fama, ammettiamolo.
In principio vantavano nelle loro fila alcuni
nomi importanti della scena Americana/rock d'autore, tra cui il buon Jon Dee Graham
(che ha preferito evidentemente dedicarsi alla carriera solista) e soprattutto
lo scomparso Stephen Bruton (ex partner artistico di Kris Kristofferson, spazzato
via da un cancro alla gola nel 2009). Una vicenda tragica quest'ultima, che si
è aggiunta purtroppo alla dipartita del primo batterista della band, Mambo John
Treanor, poi sostituito da John Chipman (recentemente nelle fila di The Band of
Heathens), uno dei tre membri veterani insieme a Scrappy Jud Newcomb (ex-Loose
Diamonds, qualcuno se li ricorda? Tra le band roots texane più interessanti di
metà anni 90) e Bruce Hughes (ex-Poi Dog Pondering). Insomma, chiamarli supergruppo
mi pare quasi una contraddizione in termini: rock'n'roll star in questo campo
non se ne vedono, solo unioni fra validissimi, coraggiosi musicisti americani,
che lavorano da gregari e macinano miglia.
Ghost Ship è
un ritorno di fiamma quasi inaspettato, visto che mancavano all'appello dal 2009,
ed è persino il disco musicalmente più interessante all'interno di una produzione
che si era mantenuta in generale nella media del roots sound texano. Ma i nuovi
arrivati Miles Zuniga (ex Fastball) e Jeff Plankerton (Ray Wylie Hubbard, Hayes
Carll e molti altri) hanno portato evidentemente una ventata di aria fresca. Difficile
infatti liquidare Ghost Ship come un disco di pura Americana o addirittura di
semplice country rock: in Nothin I Can Do
e Trouble Find Me ad esempio, entra in circolo
una forte venatura soul, Everybody Freeze
ha una malinconia pop beatlesiana, la title track si sbilancia verso un folk blues
dal gusto psichedelico. Il gioco divertente è scovare le diverse anime dei singoli
autori in ciascun brano: la sintesi funziona, pur non facendo certo gridare al
miracolo, confermando semmai pregi e difetti di una formula che forse ha la sua
ragione d'essere più dal vivo che in studio di registrazione.