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rough harvest di
Gianfranco Callieri (15/05/2013)
A nessuno piacciono i luoghi comuni, ma quando ce ne sono alcuni interpretati
nel modo giusto, con le opportune dosi di convinzione e freschezza, può anche
capitare di apprezzarne l'ennesima esumazione senza per questo sentirsi in colpa.
Time Will Take You, difatti, non è un cosiddetto "guilty pleasure",
un prodotto dichiaratamente indifendibile che nonostante tutto, per nostalgia
o pura coincidenza, procura appunto un "piacere colpevole". No, il settimo album
di Ian McFeron, un artista di Seattle poco incline a rotolarsi negli abituali
struggimenti dark/grunge dei suoi concittadini, e anzi, abituato a masticare con
disinvoltura il linguaggio roots-rock diffuso nel Midwest, è solo un disco senza
nulla di nuovo da raccontare. Di più: pesca a piene mani da stili e formule di
comunicazione non soltanto codificate da altri (a occhio e croce, Bob Dylan, The
Band e il John Mellencamp della svolta tradizionalista) tanti e tantissimi anni
fa, ma già ampiamente sfruttate da una miriade di musicisti (tanto per citare
alla rinfusa: James McMurtry, Charlie Sexton, Robert Earl Keen, Chris Knight,
Todd Snider etc.) senz'altro più dotati e talentosi del suo titolare.
Eppure,
sebbene non aggiunga alcunché di inedito (salvo forse, soprattutto nell'ideale
"seconda parte" dell'album, una vaga fragranza beatlesiana, lennoniana in particolare,
a diffondersi sulla costruzione delle melodie) ai citati paradigmi espressivi,
il rock delle radici tradotto da Ian McFeron piace e entusiasma. Accade, certo,
in virtù dei deliziosi profumi country-rock garantiti da Jon Graboff e Brad Pemberton,
ovvero la pedal-steel e i tamburi dei Cardinals di Ryan Adams. Accade grazie
alla produzione pulita, professionale e nondimeno grintosa di Doug Lancio (peraltro
impegnato a occuparsi anche di un'incredibile varietà di strumenti a corda), in
momentanea vacanza dal lavoro al fianco di John Hiatt, che riesce nell'impresa
di far assomigliare Time Will Take You proprio a una delle opere recenti di quest'ultimo
e quindi a una cornice di suoni a stelle e strisce scontornati con grazia countreggiante
e passione rock. Ecco quindi il folk-rock sgargiante, alla Levon Helm, di How
The Money Comes e il rock'n'roll in formato heartland di una Bringin'
It Back ispirata in egual misura al Mellencamp agreste di The Lonesome
Jubilee e al John Lennon rockettaro di Walls & Bridges; ecco il cow-punk (con
moderazione pop) di una Down The Road che
piacerebbe agli Old 97's e la morbida trapunta folkie di The
First Cold Day Of Fall, Good To Be Back Home e You
Are Like The Sun, dolci ballate da tramonto sul cuore polveroso dell'America
di provincia.
Nell'ultima You And Me
spunta anche un tocco elegante, e più che altro ironico, di western-swing, ma
convince maggiormente il confessionale per voce e pianoforte della dolente That's
The Truth, dopo il primo bridge trasformato in un bell'esercizio di
malinconia rock'n'country con echi di Ryan Adams, Patty Griffin e Shawn Mullins.
A leggere tutti questi confronti si potrebbe pensare che Time Will Take You e
la scrittura di McFeron non siano indenni a tratti di derivatività, e a un certo
populismo. In parte è vero, ma circoscriverne l'efficacia solo in base a una questione
di mancata o manifesta originalità sarebbe ingeneroso. Nonché improprio, perché
questa musica non nasce per suonare originale ma per essere onesta e affidabile.
Affidabile per cosa? Ma per farvi abbassare i finestrini dell'auto e partire per
un lungo viaggio, che domande.