Non ha mai avuto molto senso, in un sistema globalizzato
e liquido che tende ad abbattere le barriere, anche e soprattutto nel
campo delle arti, lasciare in piedi troppi paletti a marcare delle differenze
peraltro, molto spesso, talmente esili da divenire impercettibili. Se
poi tali specifiche distintive le si vanno a ricercare in due ambiti che
hanno usufruito, sia pure parzialmente, degli stessi impulsi culturali,
l’operazione oltre che infeconda, si rivela pure inopportuna. In quest’ottica,
cercare di comprendere se uno come Malcolm MacWatt sia uno scozzese
che scrive brani come fosse un folk singer americano o somigli di più
ad uno yankee che si cimenta con la tradizione musicale d’oltre oceano,
arricchisce scarsamente il dibattito e contribuisce in maniera davvero
poco significativa all’analisi critica. È ovvio che esistano delle sfumature
stilistiche che orientano l’ascolto e riproducono suoni, odori ed umori
caratteristici dell'una o dell’altra area geografica ma tenuto conto che
nel nostro caso a elaborare la materia è uno che evidentemente conosce
molto bene entrambi gli schemi, il risultato è che le radici si intreccino
con geometrica precisione.
Nelle note di presentazione di questo Settler, inciso per
l’etichetta statunitense Need to Know Music, registrato a Londra e mixato
a Nashville, scopriamo che Malcolm ci tiene piuttosto a definirsi una
“voce celtica nella musica americana”, uno che scrive ballate scozzesi
e le accompagna con una banda di archi degli Appalachi, ma anche uno che
“esplora i legami tra la Scozia ed il nuovo mondo” e che “riconosce che
la musica viaggia da un posto all’altro e, ovunque raccoglie nuove inflessioni
e accenti, mette radici”. L’album in ogni caso, ed è questo ciò che davvero
conta, è composto da canzoni che romanzano storie di vita ordinarie e
che vibrano spontaneamente di tangibile e costante tensione.
Avalanche and Landslide, brano di apertura, è il perfetto biglietto
da visita. A duettare con Malcolm c’è la texana Jaimee Harris, una delle
tante ospiti del disco. A lei si aggiungono due vecchie conoscenze di
RootsHighway: Laura Cantrell (The Curse of Molly McPhee) e Gretchen
Peters (My Bonny Boys Have Gone), entrambe di stanza nel Tennessee.
A completare il parterre ci sono Eliza Carthy (The Miller’s Daughter)
e Kris Drever (John Rae’s Welcome Home), pezzi di valore del panorama
folk britannico.
A questi episodi, tra i più riusciti del disco, si aggiungono altre storie
acustiche di ottima fattura. Una che ci piace segnalare è Letter
From San Francisco che parla con grande pathos del sogno americano
infranto, di emigrazione, di alcol e di droga, di disperazione e di rimpianti.
Bello il testo che si snoda su una trama sonora che brilla, come spesso
accade nell’album, per i lucidi fraseggi tra banjo, mandolino e chitarra
resofonica (dobro), per gli intarsi sonori del fiddle e per la ritmica
raffinata del bodhran, tutte parti che Malcolm, è bene sottolinearlo,
cura e svolge da solo, fornendo così anche ampia prova delle proprie doti
di polistrumentista. Settler è il suo quarto disco, sfornato in
appena tre anni, il che lascia pensare che, dopo una vita avventurosa
trascorsa a lavorare sulle piattaforme petrolifere nel Mare del Nord e
a godersi la natura a cavallo di una tavola da surf o da snowboard, abbia
deciso di fare sul serio con la musica. A noi, onestamente, pare un’ottima
notizia.