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american storytellers di
Domenico Grio (14/02/2018)
"Out
Past The Wires è il più ambizioso progetto della mia carriera", Rod Picott
non usa mezzi termini e a distanza di diciassette anni dal suo esordio discografico
e qualche piccolo passaggio a vuoto, si presenta così, con un sorprendente doppio
album, per la realizzazione del quale decide di dare fondo a tutte le proprie
risorse, affidando la produzione all'amico Neilson Hubbard e coinvolgendo
musicisti di talento, tra i quali il talentuoso chitarrista Will Kimbrough, di
cui abbiamo ultimamente parlato benissimo per la sua collaborazione con Brigitte
DeMeyer (il loro album Mockingbird
Soul è tra le cose più belle edite lo scorso anno). Ben ventidue brani
originali che rappresentano più che altro un nuovo, importante inizio, una ripartenza
in grande stile, all'affannosa ricerca di quel posto al sole che con l'ottimo
Tiger Tom Dixon's Blues, datato 2001, gli aveva giustamente riservato.
La
formula in realtà è sempre la stessa, Rod continua a muoversi tra canzone d'autore,
roots-rock, country, folk e blues, in equo contemperamento tra suoni acustici
ed elettrici, tra atmosfere intimiste e racconti più vigorosi e diretti, continua,
in buona sostanza, a fare quello che ha sempre saputo fare, raffinato e stradaiolo,
ricercato e popolare in egual misura. Nulla di rivoluzionario, di stravagante
o pirotecnico quindi ma ciò non toglie che, in questa acuta e coerente gestione
e rivitalizzazione di una visione espressiva "ordinaria", l'operazione "rinascita"
sia andata in porto. A fronte del consueto approccio stilistico, dell'usuale gusto
melodico, si avverte infatti una rinnovata ispirazione, una rafforzata e più matura
capacità espositiva. Preso nel suo complesso questo Out Past The Wires
riesce a marcare nettamente la differenza con larga parte dei prodotti di genere
in circolazione. E' lineare, equilibrato e tiene alto e costante, nonostante gli
ottanta minuti di durata, il proprio standard qualitativo, pur senza particolari
acuti. E questo, l'assenza di qualche piccola gemma da incastonate nell'ambito
di questo ottimo quadro narrativo, potrebbe essere, se vogliamo, l'unico appunto
sollevabile o meglio l'unico freno ad un giudizio di chiara eccellenza.
Di
sicuro d'impatto si rivelano gli episodi più rootsy (ci piace segnalare Hard
Luck Baby), quelli che inevitabilmente da sempre lo hanno avvicinato
a gente come Springsteen, Steve Earle o John Hiatt ma, a nostro modesto avviso,
il meglio è da ricercare nei brani meno "energici", più evocativi (Dead
Reckoning, Falling Down o Shape of You), maggiormente
fedeli alla tradizione country e, ancor di più, nei gustosi acquerelli folk, in
cui è la sei corde acustica e la scrittura cantata a colmare il silenzio della
sala, in cui prendono forma piccole storie tra ricordi, prospettive e speranze
(Blanket of Stars, Holding On, Date
of Grace, Bottom of the Well o Falling
Down). La dolcissima Little Things infine
spegne la luce e chiude la porta, lasciando il buio ad avvolgere il risuonare
del fingerpicking di Will Kimbrough.
Se questa doveva essere una nuova
partenza, si può tranquillamente dire che, sia pure diretto sempre verso la stessa
meta e sia pure avendo scelto una strada piena di curve, Rod ha sistemato il motore
del suo Volkswagen T2, messo dentro il serbatoio un bel pò di carburante e fatto
parecchio spazio per i passeggeri e non abbiamo molti dubbi che presto o tardi
arriverà a destinazione.