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countrypolitan revisited di
Fabio Cerbone (23/02/2015)
Andrew
Combs si è fatto un giro nella grande città (Nashville, e dove altrimenti?),
ha assorbito le luci e il profumo del mito che ancora scorre in quel luogo, e
infine si è messo in cammino, partendo per un tour di supporto, prima con Caitlin
Rose, quindi insieme a Justin Townes Earle. Volete sapere come è andata a finire?
Ascoltate All These Dreams, secondo capitolo discografico che dovrebbe
piazzare saldamente il suo nome tra le "next big thing" del settore Americana,
forse ripetendo le prodezze che l'anno scorso sono toccate in sorte al più
arcigno honky tonker Sturgill Simpson. Questo è l'augurio, se volete, o forse
meglio l'aria che già si respira intorno al nuovo album, il quale, a detta di
molta stampa di settore, è già da annoverare tra i dischi country del 2015. Un
po' presto - non vi pare? - e in ogni caso anche azzardato, nonostante tutte le
buone premesse.
Un fatto è innegabile: il cambio di registro rispetto
a Worried Man,
piccolo disco indipendente che lo rivelò nel 2012, è notevole. Sono finite in
soffitta la grinta del fuorilegge e la rabbia dell'outsider, dentro invece l'affettata
maniera della cosiddetta tradizione "countrypolitan" nashvilliana, quando produttori
come Bill Sherrill infilavano sezioni d'archi e spingevano fuori dalla porta gli
accenti rurali della musica bianca americana per eccellenza, facendo entrare una
brezza pop più sofisticata. Non è necessariemente un male (al tempo i capolavori
saltarono all'occhio, basta chiedere al George Jones di A Picture of Me (Without
you) o al Glen Campbell di Wichita Lineman), e basta anche convincersi
che il lavoro svolto a Nashville con Jordan Lehning and Skylar Wilson sia il frutto
di un altro artista, con diverse ambizioni.
A metà strada fra il modello
folk pop di Harry Nilsson (Nothing to Loose
è una sorta Everybody Talkin' rivisitata, non c'è che dire, e In the Name of
You svicola anch'essa da quelle parti) e le vistose divagazioni country d'autore
del citato Glen Campbell, melodioso e nobilmente pop come spesso si è proposto
in questi anni Raul Malo dei Mavericks (Foolin'
e Long Gone Lately potrebbero essere farina
del suo sacco), Combs veste ancora come Gram Parsons e rievoca sempre Ryan Adams
(Suwannee County è fatta della stessa pasta,
con quella dolce steel guitar che riporta alle atmosfere carezzevoli di Ashes
& Fire), ma questa volta ha condotto la sua band di fidati musicisti (Jeremy Fetzer
alle chitarre e Spencer Cullum Jr. alla pedal steel tra gli altri) su inediti
sentieri musicali. L'operazione, a ben vedere, ricorda da vicino quella compiuta
lo scorso anno dal collega Robert Ellis in The
Lights from The Chemical Plant (ne siano da esempio l'apertura Rainy
Day Song e la stessa All These Dreams), ma non sembra sfoderare
eguale forza compositiva e più di una volta scambia la maniera per sostanza. Accattivante
in ogni caso nel suo volgersi al classico, nella riscoperta di certe sonorità
di confine tra pop d'autore e tradizione nashvilliana.