Da un'isola del Mar Baltico dritto al cuore del rock'n'roll: che uno svedese venga
ad impartire una bella lezione ai lontani cugini americani ci pare ormai del tutto
normale, anche se qualche anno fa avremmo nutrito seri dubbi. Oggi che lo sperduto
linguaggio di certa tradizione sembra essere persino più ispirato fuori dai suoi
confini naturali, non ci soprende più di tanto accogliere a braccia aperte un
disco come Sticks in the Throat, quinto episodio in carriera di
Mikael Liljeborg, meglio conosciuto con il simpatico nome d'arte di Buford
Pope. Di lui avevamo già decantato le positive vibrazioni del precedente Matching
Numbers (si veda il video qui sotto...del nuovo purtroppo ancora nessuna
traccia), grazie al quale era riuscito anche a organizzare un breve tour italiano:
voce roca e ballate rootsy che passavano dall'Americana di oggi al country rock
di un tempo, mettendo insieme Ryan Adams e Rod Stewart come possibili suggestioni.
I tratti prevalenti erano comunque più quelli di un autentico songwriter, con
saliscendi un po' bucolici che finivano nel grande immaginario degli spazi americani.
Sticks in the Throat, undici brani catturati con un bruciante feeling
dal vivo e un quartetto alle spalle di solida ossatura rock, cambiano sensibilmente
rotta, spostando la musica di Buford Pope nella direzione di uno sbarazzino rock'n'roll
da strada maestra che macina cadenze urbane, ritornelli a ripetizione e in generale
un impasto pop elettrico che non può non ricordare da vicino la lezione di Tom
Petty con i suoi Heartbreakers (la rocciosa Stand Up
for Your Man ad esempio potrebbe uscire dalla scaletta di You Got Lucky).
Un'anomalia bella e buona nel gusto medio delle produzioni odierne e forse per
questo ancora più gradita: non è l'effetto sopresa né tanto meno l'originalità
a conquistare, semmai la testardaggine di uscire allo scoperto con una proposta
simile e di mantenere una freschezza mirabile nonostante la classicità delle soluzioni.
Tre accordi, chitarre pastose e centralità del riff che a cominciare da Don't
Take It Out on Me fanno capire in quale campo ha deciso di giocare
Buford Pope con la sua band: Pelle Jernryd (chitarre, lap steel) è il piccolo
Mike Campbell della situazione, Amir Aly cuce insieme il sound con piano e hammond,
il resto della sezione ritmica segue al trotto.
La liricità di un folk
rock come She's Gotta Country Mouth, complice
la vocalità strozzata di Buford, richiama lo Steve Forbert dei tempi migliori,
e dovessimo effettivamente scomodare un pantheon di "splendidi perdenti" del rock
periferico a cui legare lo spirito di Sticks in the Throat, non ci sarebbero dubbi
che il suo nome come quello di Willie Nile (prendete la generosità del suo rock'n'roll
e avrete un buon punto di riferimento) aleggiano nella sequenza della stessa title
track, di Go Your Own Way e Give It Up.
Quando ritorna una fiammata di radici e Buford Pope e soci si ricordano della
loro educazione tradizionalista, l'ago della bussola punta dritto a sud: il banjo
accompagna la bollente atmosfera southern di Highway,
un titolo un programma, la lap steel cede al country rurale in You're the Drug
I Like to Use, la più acustica dell'album, mentre il finale si trascina nel
tumulto rock sudista di What Will Your Mama Say
e di una slide assassina che impazza nella coda finale. Si può ancora concepire
un disco così nel 2014 e non sembrare solo anacronistici? Evidentemente si, basta
avere l'innocenza dalla propria parte.