Scegliere la propria strada, senza guardarsi indietro,
riprendersi il giusto tempo, senza inseguire le sirene di una società
che ci vorrebbe programmati in tutt’altro modo. C’è un filo rosso, evidente
nei testi ma anche nella storia stessa della band, che lega l’intera
opera dei Cheap Wine e più in particolare quella sviluppata negli
ultimi anni. Un periodo duro da attraversare per il gruppo pesarese,
pandemia e di conseguenza tour cancellati, a maggior ragione per la
loro orgogliosa indipendenza (anche questo disco nasce dal ricorso al
crowfunding) e quel restare fuori dai giochi e fedeli alla linea tracciata
ormai molte stagioni fa.
Yell, urlo positivo anche nei colori e nei tratti grafici scelti
per la copertina (curata da Alessandro Baronciani), è un grido liberatorio
e al tempo stesso una accettazione/ consapevolezza della propria condizione
di outsider nel panorama rock italiano, che in fondo ai Cheap Wine è
sempre andato stretto, meglio, è sempre sembrato avulso. Loro scendono
in un altro campo, quello che è diventato merce rara anche se si alza
lo sguardo fuori dai nostri confini, un modo di intendere e interpretare
il rock’n’roll che ha pochi riscontri persino a livello internazionale.
Per questo dovremmo andare fieri di avere in casa un gruppo così “ostinato”,
venticinque anni di carriera, una quindicina circa di dischi fra album
di studio e dal vivo che confermano la tenuta della band, cambi di formazione
compresi. Restano i punti fermi, le canzoni di Marco Diamantini, che
non hanno la velleità di scrivere romanzi in musica, eppure afferrano
una profondità rara in una rock band, e naturalmente le chitarre del
fratello Michele, classiche e trascinanti dal primo istante.
Yell mette a frutto entrambe le caratteristiche,
aggiunge e conferma l’apporto essenziale dei colori delle tastiere di
Alessio Raffaelli (la formazione è completata da Alan Giannini alla
batteria e Andrea Giaro al basso) e si incammina nella direzione di
uno dei lavori più coerenti e maturi della loro discografia. Sorprendente,
a giudicare dalla lunga militanza, quando altre band avrebbero già cominciato
a “sopravvivere”: qui invece sembrano riemergere a tratti i Cheap Wine
più spiritati dei tempi di Ruby Shade e Crime Stories
(per chi vi scrive tra i momenti più alti della loro produzione), per
esempio nella partenza a razzo di Greedy For
Life, rock’n’roll classico che assimila in un sol colpo certe
pulsioni garage degli Heartbreakers di Tom Petty e il tiro punk rock
dei Social Distortion. La scelta di campo ancora una volta è netta e
i Cheap Wine tengono alta la tensione anche in No Longer Slave,
dove l’organo di Raffaelli concede quel tocco sixties al suono stradaiolo
della band. Il trittico si chiude idealmente con la stessa Yell,
riff e giri armonici che riconosciamo all’istante, ma che nelle mani
giuste non appaiono affatto scontati, la differenza la fa sempre l’attitudine
e la storia stessa di un gruppo.
E poi i Cheap Wine sanno come e quando dosare le forze, abbassare le
luci, cercare una ballata elettrica che abbia quel passo epico e sognante
nel medesimo tempo (Your Fool’s Gold),
inseguendo una dolce melodia rarefatta (The Scent of a Flower)
e addirittura gli accenti accattivanti, verrebbe da dire pop (ma il
rock e la strada sono sempre all’orizzonte) di una scintillante Sun
Rays Like Magic. Tutta la parte centrale di Yell è incentrata su
questo mood, una ripresa e maturazione di quanto i Cheap Wine avevano
già sperimentato nei toni più bluastri di certi loro album recenti,
con una leggera nota di nostalgia adulta che si fa largo nel canto intimo
di Floating, brano con una notevole
apertura melodica del ritornello, che dà respiro e delicatezza all’insieme.
Anche la chitarra di Michele Diamantinisembra volersi librare
ma adeguandosi al tono di queste ballate, senza mai eccedere. Tanto
il tempo del rock’n’roll ritornerà comunque, deciso ad azzannare, nascosto
dietro l’angolo: The Devil is Me,
tra gli episodi più trascinanti e riconoscibili di Yell,
pronta per essere servita dal vivo, è l’essenza estratta dal Neil Young
di Like a Hurricane, mentre Colors riprende quel galoppante
intreccio di acido garage e rock da strada meastra nel quale tastiere
e chitarra si riconoscono a vicenda. E questo velo di classiche tonalità
sixties, che pare avvolgere Yell e così accentuare la sua richiesta
di sogni e liberazione dalle gabbie del nostro tempo, trova la sua conclusione
più naturale in quella sorta di testamento che è The
Last Man on the Planet, ballata dai morbidi andamenti jammati,
con una chitarra più free, che aggancia vagamente il treno degli Allman
Brothers/ Grateful Dead, in una perfetta dichiarazione di appartenenza
a un unico grande romanzo rock.