Ruben Minuto - This
[Ruben
Minuto 2011]
Electric Sixty Nine -
Cornelius
The Colonel & The Hot Air Baloon Club [Facelikeafrog
2010]
Ruben Minuto è un musicista di talento, possiede una sensibilità artistica
fuori dal comune e, cosa di non poco conto, è uno di quelli che ha fatto, con
convinzione e con smisurata passione, la gavetta (giusto per usare un termine
oramai decisamente desueto). Ad una costante attività live, ha abbinato negli
anni numerosi progetti, tutti eterogenei e molto interessanti, nonché solide collaborazioni
con artisti americani di ottimo livello (Ashleigh Flynn, Steve Arvey, Kellie Rucker).
This è il suo secondo lavoro in studio e rispetto al precedente
… I Hate to Sing the Blues (with The Good'ole Manners) c'è una virata decisa verso
i suoni della west coast, con abbondanti citazioni alla musica d'autore statunitense
ed un particolare gusto fusion, ben riconoscibile soprattutto nelle prime tracce,
che produce atmosfere rarefatte ed eleganti linee melodiche, impreziosite da delicati
richiami jazzy e gustose incursioni nella cultura musicale brasiliana (Places
and Memories) e persino gitana (Giannina,
dedicata alla nonna). Scorrendo le dodici tracce del disco la sensazione che si
avverte è quella di un raffinato equilibrio.
Tutto è sapientemente misurato,
dalla produzione, per nulla ridondante, alla voce di Ruben, corposa e suggestiva;
tutto funziona da tenue cornice al racconto sonoro che si dipana dal fluire delle
canzoni e tutto è altresì arricchito dalla brillantezza e dalla profondità delle
liriche. In the Hands of Time è forse il
brano più rappresentativo dell'album con un grande testo che accarezza una melodia
malinconica ed evocativa, Faith è presa in
prestito da Steve Arvey ed è l'episodio più roots mentre Who
Cares, semplice nella struttura, è impreziosita dal canto di Ashleigh
Flynn.
Un disco bello, quindi, a tratti importante e, se vogliamo,
piuttosto sorprendente considerata la spiccata attitudine country e blues di Ruben.
Ecco, andando proprio a cercare il classico pelo nell'uovo, gli unici che potrebbero
storcere il naso sono gli integralisti "stradaioli", i quali avrebbero forse maggiormente
apprezzato un lavoro più saldamente ancorato alla tradizione, ma è una critica
che francamente lascia il tempo che trova visto che ciò che conta davvero è la
grande qualità artistica esibita che qui, dateci fede, è fuori da ogni discussione.
(
7) (Domenico
Grio)
www.rubenminuto.it
Maury Wood vive in provincia di Verbania, ma è tornato dopo una lunga permanenza
in Argentina e a New York per motivi di famiglia. Forse per questo ha maturato
un'esperienza ed una visione internazionale della sua musica (e non ha mai composto
in italiano). Da qualche anno è il leader degli Electric Sixty Nine con
i quali ha già inciso due album, cambiando più volte formazione ed ottenendo sicuramente
riscontri maggiori in Germania e persino in Gran Bretagna rispetto al nostro paese.
Il motivo è semplice: la band suona classic rock seppur tentando di renderlo più
attuale. E non a caso per il terzo disco a marzo i ragazzi sono volati a Chicago
per registrare agli Electrical Studios di Steve Albini, che ha prodotto
l'album. Il colonnello prussiano Cornelius è nato dalla fantasia di Maury e non
è altro che il protagonista delle storie raccontate al figlioletto per farlo addormentare.
Fortunatamente il disco non produce lo stesso effetto, ma un'atmosfera sognante
che richiama ad una psichedelia non accentuata che si respira nei brani più fluidi
e rilassati (e nella deliziosa copertina), che si alternano a tracce decisamente
più robuste ispirate dai classici della prima generazione (Led Zeppelin, Mountain)
e da band più recenti, in primis i Black Crowes. La formazione comprende i nuovi
acquisti Simone Facchi alla batteria e Dario Trapani al basso, oltre al chitarrista
Mauro Ramozzi ed a Wood, principale compositore, cantante e chitarrista.
La
prima traccia Magnolia è un rock energico
ed intenso che richiama i Crowes, con un refrain memorizzabile ed una chitarra
anni settanta che si distende in un assolo distorto e compatto. Bone
Ambitious Times ha un bel suono garage, un riff poderoso e un altro
assolo molto efficace. Woo Hee è più morbida,
un pop rock fluido e melodico. In Muddy Roots
la voce ricorda il Gallagher degli Oasis (e un po' Joe Elliott dei Def Leppard)
ed anche la musica cerca di inserire suoni più contemporanei su una base classica.
L'intimista Heart Of The Hurricane ricorda
le ballate dei migliori gruppi di hard rock, con riusciti cambi di ritmo e di
atmosfera (peccato che la chitarra solista sembri un po' trattenuta come in tutto
il disco). Red Heart Procession ha un riff
diviso a metà tra Remedy dei corvi e i Led Zeppelin, un coro trascinante.e uno
stacco di slide sudista meritevole di ulteriore sviluppo. Il ritmo si placa con
lo strumentale Northern Cross, esempio di
psichedelia delicata e piacevole, ma riprende forza con la intensa title track,
un rock blues aspro e ben costruito sia nella parte cantata che nel crescendo
del grintoso assolo di chitarra. Il disco è chiuso da una versione acustica di
Who Hee che sembra voglia rasserenare l'atmosfera dopo le sventagliate
di chitarra del brano precedente.
Credo che gli Electric Sixty Nine possano
(e debbano) affinare la loro scrittura e forse anche le parti vocali, ma il loro
sforzo di produrre un disco di rock dal respiro internazionale mi sembra complessivamente
riuscito e spero che i risultati li convincano a proseguire su questa strada.
(
6.5) (Paolo
Baiotti)
www.myspace.com/electric69band
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