inserito 09/04/2011

Ruben Minuto - This  [Ruben Minuto  2011]  
Electric Sixty Nine -
Cornelius The Colonel & The Hot Air Baloon Club  [Facelikeafrog  2010]

Ruben Minuto è un musicista di talento, possiede una sensibilità artistica fuori dal comune e, cosa di non poco conto, è uno di quelli che ha fatto, con convinzione e con smisurata passione, la gavetta (giusto per usare un termine oramai decisamente desueto). Ad una costante attività live, ha abbinato negli anni numerosi progetti, tutti eterogenei e molto interessanti, nonché solide collaborazioni con artisti americani di ottimo livello (Ashleigh Flynn, Steve Arvey, Kellie Rucker). This è il suo secondo lavoro in studio e rispetto al precedente … I Hate to Sing the Blues (with The Good'ole Manners) c'è una virata decisa verso i suoni della west coast, con abbondanti citazioni alla musica d'autore statunitense ed un particolare gusto fusion, ben riconoscibile soprattutto nelle prime tracce, che produce atmosfere rarefatte ed eleganti linee melodiche, impreziosite da delicati richiami jazzy e gustose incursioni nella cultura musicale brasiliana (Places and Memories) e persino gitana (Giannina, dedicata alla nonna). Scorrendo le dodici tracce del disco la sensazione che si avverte è quella di un raffinato equilibrio.

Tutto è sapientemente misurato, dalla produzione, per nulla ridondante, alla voce di Ruben, corposa e suggestiva; tutto funziona da tenue cornice al racconto sonoro che si dipana dal fluire delle canzoni e tutto è altresì arricchito dalla brillantezza e dalla profondità delle liriche. In the Hands of Time è forse il brano più rappresentativo dell'album con un grande testo che accarezza una melodia malinconica ed evocativa, Faith è presa in prestito da Steve Arvey ed è l'episodio più roots mentre Who Cares, semplice nella struttura, è impreziosita dal canto di Ashleigh Flynn.

Un disco bello, quindi, a tratti importante e, se vogliamo, piuttosto sorprendente considerata la spiccata attitudine country e blues di Ruben. Ecco, andando proprio a cercare il classico pelo nell'uovo, gli unici che potrebbero storcere il naso sono gli integralisti "stradaioli", i quali avrebbero forse maggiormente apprezzato un lavoro più saldamente ancorato alla tradizione, ma è una critica che francamente lascia il tempo che trova visto che ciò che conta davvero è la grande qualità artistica esibita che qui, dateci fede, è fuori da ogni discussione. (  7)
(Domenico Grio)

www.rubenminuto.it


Maury Wood vive in provincia di Verbania, ma è tornato dopo una lunga permanenza in Argentina e a New York per motivi di famiglia. Forse per questo ha maturato un'esperienza ed una visione internazionale della sua musica (e non ha mai composto in italiano). Da qualche anno è il leader degli Electric Sixty Nine con i quali ha già inciso due album, cambiando più volte formazione ed ottenendo sicuramente riscontri maggiori in Germania e persino in Gran Bretagna rispetto al nostro paese. Il motivo è semplice: la band suona classic rock seppur tentando di renderlo più attuale. E non a caso per il terzo disco a marzo i ragazzi sono volati a Chicago per registrare agli Electrical Studios di Steve Albini, che ha prodotto l'album. Il colonnello prussiano Cornelius è nato dalla fantasia di Maury e non è altro che il protagonista delle storie raccontate al figlioletto per farlo addormentare. Fortunatamente il disco non produce lo stesso effetto, ma un'atmosfera sognante che richiama ad una psichedelia non accentuata che si respira nei brani più fluidi e rilassati (e nella deliziosa copertina), che si alternano a tracce decisamente più robuste ispirate dai classici della prima generazione (Led Zeppelin, Mountain) e da band più recenti, in primis i Black Crowes. La formazione comprende i nuovi acquisti Simone Facchi alla batteria e Dario Trapani al basso, oltre al chitarrista Mauro Ramozzi ed a Wood, principale compositore, cantante e chitarrista.

La prima traccia Magnolia è un rock energico ed intenso che richiama i Crowes, con un refrain memorizzabile ed una chitarra anni settanta che si distende in un assolo distorto e compatto. Bone Ambitious Times ha un bel suono garage, un riff poderoso e un altro assolo molto efficace. Woo Hee è più morbida, un pop rock fluido e melodico. In Muddy Roots la voce ricorda il Gallagher degli Oasis (e un po' Joe Elliott dei Def Leppard) ed anche la musica cerca di inserire suoni più contemporanei su una base classica. L'intimista Heart Of The Hurricane ricorda le ballate dei migliori gruppi di hard rock, con riusciti cambi di ritmo e di atmosfera (peccato che la chitarra solista sembri un po' trattenuta come in tutto il disco). Red Heart Procession ha un riff diviso a metà tra Remedy dei corvi e i Led Zeppelin, un coro trascinante.e uno stacco di slide sudista meritevole di ulteriore sviluppo. Il ritmo si placa con lo strumentale Northern Cross, esempio di psichedelia delicata e piacevole, ma riprende forza con la intensa title track, un rock blues aspro e ben costruito sia nella parte cantata che nel crescendo del grintoso assolo di chitarra. Il disco è chiuso da una versione acustica di Who Hee che sembra voglia rasserenare l'atmosfera dopo le sventagliate di chitarra del brano precedente.

Credo che gli Electric Sixty Nine possano (e debbano) affinare la loro scrittura e forse anche le parti vocali, ma il loro sforzo di produrre un disco di rock dal respiro internazionale mi sembra complessivamente riuscito e spero che i risultati li convincano a proseguire su questa strada. (  6.5)
(Paolo Baiotti)

www.myspace.com/electric69band


<Credits>