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Lowlands
The
Last Call
[Gipsy Child 2008]
La strada che divide Pavia da una Interstate del Midwest americano, o da
un sentiero polveroso dell'Arizona, persino da una locanda malfamata di Belfast,
non è poi così lunga e impercorribile, basta soltanto far viaggiare la fantasia
e smuovere il cuore di qualche musicista, incontrandosi nel tragitto. Questo è
stato forse il segreto che ha portato la numerosa comitiva dei Lowlands
(la voce e le chitarre acustiche di Edward Abbiati, il basso di Simone Fratti,
il violino di Chiara Giacobbe, le chitarre di Francesco Verrastro, Stefano Speroni
e Simone Prunetti, la batteria di Paolo Maggi) a fare tesoro delle amicizie nate
fra i palchi italiani di qualche tournè in provincia: ecco allora che le canzoni
di Edward Abbiati sono diventate la scusa per una pacca sulla spalla ed
un giro di bevute con Mike Brenner, James Cruickshank, Nick Barker,
Richard Hunter, Chris Cacavas ed altri ancora, tutti impegnati a dare forma
a questo sorpredente The Last Call. Copertina uggiosa,
gocce di pioggia e nubi autunnali, che sospignono un roots rock dalle tonalità
crepuscolari, fra ballate che ricordano il deserto dei Richmond Fontaine, bizze
elettriche che recuperano l'anima fuorilegge del Paisley Underground e un folk
rock dai sapori antichi e annaffiati di Irlanda. Un disco colmo di passione e
di piccoli dettagli, ma anche di gran mestiere nel trattare ogni intersezione
fra radici e rock'n'roll, tutto ciò nonostante il luogo comune che non si possa
indossare un simile vestito se non si è del tutto americani. Chi va dicendo una
simile idiozia, se poi Ghost in This Town
e What Can I Do sembrano sbucare all'improvviso
da un vecchio vinile dei Green On Red? Le liriche di Edward Abbiati hanno le giuste
cadenze nostalgiche, piene di rimorsi e voglia di riscatto, roba da autentico
"loner" di periferia, a cui la band adatta un suono in partenza vivace e virato
all'alternative country (incantevole in tal senso You
can Never Go Back, con la pedal steel di Brenner), strada facendo sempre
più adagiato su tramonti rosso fuoco ed un country-folk asciutto e spartano.
Escono allora allo scoperto la magica armonica di Richard Hunter,
una cromatica che veste di velluto Like a Rose
e 38th & Lawton, mentre l'aggiunta del violino
di Chiara Giacobbe imbratta con una lontana eco western la deliziosa Leaving
NYC. Gli accenti si fanno rarefatti e la voce di Edward, sofferta e
adatta al ruolo, prende il sentiero del deserto, quello che fa sembrare i Lowlands
l'ultima scoperta del sottobosco roots americano, fra il cullare dolce di Lately
e la desolazione di That's Me on the Page,
qui davvero non dissimili dallo stile dei citati Richmond Fontaine di Willy Vlautin.
Eppure i Lowlands hanno sufficiente personalità per non apparire affatto un rifacimento
qualsiasi: tra il nervoso, pulsante scalciare elettrico di una livida Friday
Night e il folk rock corale di In the End
riportano l'ago della bilancia verso l'elettricità più plateale.
Un piccolo scrigno di suoni americani dalla provincia...italiana! (Fabio
Cerbone) www.lowlandsband.com
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