Avevamo già incontrato Andrea
Calvo e il suo progetto musicale Grand Drifter (a sua detta
“a volte una band, a volte un solista”, da buon manuale dell’artista
indie 2000) nel 2018, con l’album Lost
Spring Songs, e volentieri segnaliamo anche il successore
Only Child, uscito già nella fine del 2021. Secondo
il vecchio detto che squadra che vince non si cambia, Grand Drifter
si è affidato ancora una volta ai musicisti del giro Yo Yo Mundi
(Andrea Cavalieri, Eugenio Merico, Chiara Giacobbe, Simone Lombardo),
band in cui ha anche militato, lasciando così la produzione nelle
salde mani di Paolo Enrico Archetti Maestri, stavolta affiancato
dall’esperto Dario Mecca Aleina. Disco autunnale e giocato su
una serie di mid-tempo dallo stile melodico molto uniforme, da
cui forse proprio l’inizio etereo di A Deal with the Rain
si discosta un poco. Il suo è uno stile che potrebbe avere molti
rimandi all’indie-folk degli anni 2000 così come a certo post-punk
chitarristico degli anni Ottanta, con Bookends e Haunted
Life, ad esempio, che potrebbero anche essere il risultato
di una collaborazione tra Ben Watt (l’ex Everything But The Girl)
e Johnny Marr, e bene o male anche il resto dei brani segue la
stessa traccia stilistica, con l’aggiunta di qualche inserto strumentale
a differenziare (Diary of Sorts insiste sulle chitarre
jingle-jangle, To The Evening Stars si caratterizza per
una slide-guitar a ricamo, in Hidden From Your Sight fa
capolino la fisarmonica di Fabio Martino, in The Big Without
il violino di Chiara Giacobbe). Da notare anche As a Light
Farewell, che non va molto lontano dalla lezione del pop degli
Housemartins, e una Debris che parte lenta per poi riallinearsi
al ritmo del disco. Album che scorre benissimo, molto intimo,
e fatto di testi che sono più delle piccole fotografie delle emozioni
personali dell’autore più che vere e proprie storie da raccontare,
Only Child conferma Grand Drifter come uno dei nomi nostrani
da seguire attentamente.
Country
Feedback Intermission [MiaCameretta Records 2021]
Non molla l’osso il frusinate Antonio Tortorello,
in arte Country Feedback, e continua con il secondo album
Intermission a seguire una sua personalissima via
che definirei, prendendomi non poche licenze poetiche, “indie-pop
tribale”. Il nuovo album parte infatti là dove finiva il precedente
Season Premiere, da un
lavoro di studio e ricerca sulle ritmiche, sempre partendo un
po’ dai battiti isterici dei Talking Heads più evoluti (o, se
vogliamo aggiornare un po’ i riferimenti, potremmo anche tirare
in ballo gli LCD Soundsytem), ma con in più anche quei controtempi
tipici dei primi XTC o dei Gang Of Four (sentite Enemy),
e l’evidente amore per la black music più d’avanguardia di ogni
epoca (da Ornette Coleman a Kanye West). Ma questa volta, sempre
producendo un po’ tutto da solo, con l’aiuto tecnico di Filippo
Strang e qualche musicista (Costantino Mizzoni, Massimo Ceci,
Lucia Scaccia, Riccardo Cacciarella), i due anni di lavoro si
sono concentrati molto anche sui particolari melodici, anche con
interventi strumentali molto più articolati (ad esempio i fiati
di Giulio Bozzo e Damiano Drogheo di Not Quite My Tempo,
titolo che già dice tutto sullo spirito del disco, che ritornano
anche nello strumentale Reverse Engineering, che sperimenta
l’incrocio con una base ritmica più elettronica). Per il resto
i pezzi vivono di quell’elettricità percussiva tipica di quegli
anni musicali, come in Orson Welles che apre il disco,
ma è l’uso del pianoforte che sposta il focus più sulla canzone
in episodi come Music is a Mirror e Nothing’s Really
Changed, mentre Home appare come l’episodio più ipnotico,
al limite dell’acido. The Shape of Things to Come è invece
un finale quasi acustico e in controtendenza con un disco interessante,
non immediato, ma in ogni caso non ostico, frutto di un evidente
voglia di conciliare quello che suonava sperimentale quarant’anni
fa con il nuovo modo di comporre canzoni più intimo e racchiuso
degli anni Duemila.