Tracce di rock da strada maestra, chitarre elettriche
dall'anima sudista e dalla rabbia hard blues, un buon senso melodico
che guarda alla tradizione country, soprattutto texana: non ci sorprende
più constatare la capacità di alcuni musicisti italiani nel fare proprie
queste coordinate sonore e rileggerle a migliaia di chilometri di distanza.
Musicista di origini siciliane e di adozione milanese, Leandro Diana
sceglie l’heartland rock americano più classico per raccontare le sue
storie universali (ma con uno sguardo anche al contesto della famiglia
e degli affetti), fatte di desiderio di libertà e affermazione individuale,
di pagine da voltare e scelte coraggiose da prendere in un mondo che
non fa sconti. Sono alcune delle suggestioni che attraversano gli undici
episodi di Dirty Hands an Gravel Roads, album che arriva
a sette anni dal primo tentativo solista, Postcards from Nowhere,
nel frattempo impiegati a farsi le spalle larghe sui palchi, collaborando
anche con alcuni noti musicisti dell’area blues e rock, milanese e non
solo, come Max Prandi, Ruben Minuto o Marco Limido.
L’esperienza gioca a favore, e nonostante la produzione in proprio ancora
da assestare e una certa dose di autarchia nelle incisioni (Leandro
Diana suona buona parte dell’album, affiancato in alcuni episodi da
Deneb Bucella alla batteria e Giuseppe Diana al pianoforte e organo),
il disco esprime una facilità di scrittura e una fedeltà ai modelli
di riferimento che finisce spesso per essere un pregio e non una zavorra.
Emergono due anime distinte in Dirty Hands an Gravel Roads e
due possibilità nella rotta da seguire per lo stesso Leandro Diana:
da una parte il rocker più acceso e il chitarrista che dalle radici
blues approda alla grande stagione degli anni Settanta (Burn It All
Down Again ne è un buon esempio), dall’altra l’autore che butta
un’occhio all’Americana, alla tradizione dei songwriter e ricerca più
l’anima della canzone. Inutile forse affermare che la seconda soluzione
ci appare quella non solo più apprezzabile e meno scontata (Getaway
e Nothing to Say si incartano un poco nella loro prevedibilità)
ma anche quella dove la voce di Diana (chiara, diretta e completamente
a suo agio) acquista maggiore autorevolezza.
Tutt’altro che trascurabili, sia detto, quegli episodi nei quali le
due anime sembrano incontrarsi, dall’incipit sferzante di Changes
alla rutilante ballad elettrica Just Be Gone, dove comincia a
farsi spazio il ruolo essenziale del piano nella tenuta melodica di
questi brani, fino ad azzeccare davvero una canzone fortunata con Another
Gravel Road, ritornello killer che in un mondo alla rovescia,
con una produzione più importante e magari un viaggio diretto negli
States, farebbe scintille. Eppure Dirty Hands an Gravel Roads
pare convincere soprattutto nella parte centrale, quando Leandro Diana
imbastisce un trittico di ballate (Be Free, la cristallina Richie’s
Song, One More Day Alive) che cuciono insieme vibrazioni
elettro-acustiche e una predisposizione per quel romanticismo rock che
qui rincorre la stella polare di giganti come John Mellencamp e Bob
Seger, alla luce magari di quei cantori “minori” (Michael McDermott
e Will Hoge sovvengono alla mente) che ne hanno proseguito il cammino.
Leandro Diana non avrà la fortuna di esibire il passaporto americano,
ma dimostra di maneggiare la materia con la stessa dedizione: superate
alcune naturali dipendenze dai propri eroi e prestando un occhio di
riguardo alla parte d'autore, per così dire, del suo songwriting,
potrebbe trovare presto la giusta sintesi musicale.