Non è la prima volta che ci
occupiamo di Elli De Mon, nickname virato in blues di Elisa
De Munari, che ha pubblicato proprio allo scadere del 2018 questo
Songs Of Mercy And Desire, suo terzo album, e ideale
seguito del precedente EP Blues Tapes: The Indian Sessions. Lei
ama definirsi “One Woman Band” per quella sua caratteristica di
esibirsi e registrare in solitaria il suo blues volutamente grezzo
e aggressivo, lontano discendente di quello di Son House, di cui
la De Mon qui riprende e rielabora Grinnin’ in Your Face.
Ma anche una musica parente più estrema del blues alternativo
offerto da Jon Spencer (che non a caso la volle ad aprire i propri
concerti italiani) o perfino degli White Stripes in alcune svisate
più elettriche (Louise). Ma la forza di un disco davvero
coinvolgente e maturo è la capacità di non usare la facile strada
delle cover (quella di Son House è l’unica), quanto di cercare
una nuova via al songwriting blues. Nascono così una gran bella
ballata come Flow, un dark-gospel
sulle violenze domestiche come Tony
(dove intervengono la voce di Phill Reynolds, nome d’arte dell’italiano
Silva Cantele, e il sax di Matt Bordin dei Mojomatics) e altri
episodi come la dark Elegy, la ballata Riverside
o una Chambal River inacidita dal sitar. Interessanti anche
i testi, pieni di storie personali dove anche il Veneto diventa
teatro delle stesse vicende di lotta e resistenza che hanno animato
la musica del Mississippi. Un disco che piacerebbe molto allo
scrittore Massimo Carlotto quando racconta i suoi blues per cuori
fuorilegge in salsa veneta.
Sterbus Real
Estate/ Fake Inverno [Sterbus/
Zillion Watt Records 2018]
“Ci scusiamo per aver fatto un doppio album,
ma non avevamo tempo per farne uno singolo”. Scherzano così gli
Sterbus, duo romano formato da Emanuele Sterbini e Dominique
D'Avanzo, sulla loro imponente nuova opera Real Estate/
Fake Inverno, disco in due cd “stagionali” costruito sull’idea
che i bravi artisti non sono quelli che seguono uno stile, ma
che fanno propri tanti stili diversi. Diciassette canzoni in cui
troverete davvero di tutto, dal Bowie che risuona nel sax dell’iniziale
Fall Awesome o nel finale di Shine a Light, al power-pop
di Maybe Baby o Prosopopeye. Bello il gioco delle
due voci tra i due artisti, con la D’Avanzo che ha una voce che
può ricordare sia la Moe Tucker dei Velvet (In This Grace),
così come la Exene Cervenka degli X (Lioness). Ma a loro
piace mischiare parecchio, magari anche riff alla Husker Du con
il prog (Razor Legs), echi dark (Adverse Advice MCCCXLVII)
con il brit-pop chitarristico alla Johnny Marr (Little Miss
Queen of Light o Mate in 4/4), fino al sognante indie-folk
della title-track o alle sventagliate garage-rock di Stoner
Kebab. Anche un brano come Micro
New Wave appare come una pop-song perfetta che in altri
tempi sarebbe potuta anche divenire una probabile hit. Lunga la
lista degli ospiti in studio, dove spiccano il terzo membro ad
honorem Bob Leith dei Cardiacs, batterista fisso della band, e
Tim Rogers, che interviene nella beatlesiana Emy’s
Fears. Una delle migliori sorprese del 2018 dei nostri
sotterranei.
Fa un po’ girare la testa leggere
gli ospiti presenti nel disco di Paolo Preite, vuoi perché
vi transitano due tra i migliori batteristi che io abbia mai visto
suonare (Kenny Aronoff, che non ha bisogno di presentazioni su
un sito innamorato di Mellencamp e Fogerty, e Michael Jerome,
che ho apprezzato al fianco di Richard Thompson), il bassista
dei miei sogni Fernando Saunders (a lungo con Lou Reed, e che
già produsse il primo disco di Preite Don't Stop Dreaming
nel 2015), e quel vecchio marpione della tastiera che è Bob Malone
(Fogerty, Seger, e tanti altri big nel suo curriculum). Basterebbe
questo per attirare l’attenzione, ma va dato atto a An Eye
on the World di essere un disco che Preite si è autoprodotto
con l’intento non di sciorinare collaborazioni note agli addetti
ai lavori, ma offrire un pugno di brani intensamente intimi che
chiedono anche più ascolti per palesare la loro natura. Saunders
ritorna in produzione solo per Una piccola differenza,
unico brano in italiano insieme alla title-track, che usa singolarmente
sia inglese che italiano. Il disco conferma l’attitudine alla
ballata di Preite, che dà il meglio negli episodi più riflessivi
come Memories and Dust (con
il ceco Ondre J Pivec, che lo aiuta anche in altri brani, e la
violoncellista Jane Scarpantoni, anche lei già sentita al fianco
di Lou Reed), I Will Meet You Again (con la voce di Chiara
Marcon) e Wandering, mentre ovviamente Aronoff dona più
polmoni e veemenza a brani come Can’t Find The Reason.
Disco ben prodotto e con una manciata di canzoni ben strutturate,
come ad esempio il gran finale orchestrale di
In Your Eyes.
Threelakes
and the Flatland Eagles Golden
Days [Irma
Records/Upupa Produzioni 2018]
I Threelakes and the Flatland Eagles,
nome che racchiude varie “keywords” del mondo musicale americano,
sono una band fondata dal modenese Luca Righi nel 2012 con Giorgio
Borgatti, Paolo Polacchini, Lorenza Cattalani e Riccardo Ross.
Golden Days è il loro secondo album dopo War
Tales del 2013, ma nel frattempo sono usciti anche altri progetti
live e album collaborativi con alcune artiste americane come Antonette
Goroch e Olivia Mancini o con l’italiano Phill Reynolds. Dopo
la bella partenza riflessiva con The
Storm, Golden Days si rivela subito come un disco di
rock americano muscolare e chitarristico, anche se il singolo
Brothers (con un video girato in fabbrica che più blue-collar
di così non si può) ha un nonsoché di Smiths nel suono. Poi però
arrivano il giro tipicamente Jersey-sound di Ambition,
o il mid-tempo rock di Remedy a riportare ogni cosa oltreoceano.
Il tutto completato da suoni da rock-band anni 80 alla Green On
Red, anche nei brani più lenti come Ask
Something New, che rinverdisce il ricordo delle connessioni
tra Dan Stuart e le tastiere di Chris Cacavas, oppure riff springsteeniani
(Carol), o brani che paiono usciti da un disco dei sottoboschi
degli anni 80 (Heaven's Cell). Se avete nostalgia di sonorità
a metà tra il Paisley Underground e gli Heartbreakers, se non
proprio alla Lloyd Cole & The Commotions (Places me li
ricorda molto), Golden Days è il disco giusto, fatto di quel famoso
“sudore” di cui tanto parlavamo in quegli anni, ma anche di canzoni
scritte come si deve, come la bella title-track che chiude il
disco.