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Charlie Watts
Charlie's Last Blues
   

Charlie Watts
Londra, 2 giugno 1941- Londra 24 agosto 2021

[a cura di Roberto Giuli]

Il critico Nick Logan, nella sua “Enciclopedia del Rock” del 1976, scriveva a proposito dei Rolling Stones: “Nonostante il nuovo album non abbia entusiasmato (“Black And Blue” ndr), il gruppo ha dimostrato, nel corso del tour europeo, di non aver perso nulla della magia dal vivo. Jagger possiede una completa agilità e un totale controllo del palco”. Inaudito, con il senno del tempo, per un frontman avere trentatrè anni, lui che già nel 1966 affermava di “pensare di durare fino alla fine del decennio”; da non considerare poi Bill Wyman, il bassista, che di primavere ne aveva all’epoca quaranta. Mick, Keith e soci si trovavano ad uno strano incrocio, erano già una vecchia band ma inaspettatamente avevano “completa agilità” e tanta energia per andare avanti. Come dire, può una rock’n’roll band suonare per trenta, quaranta, cinquant’anni? Lo ingnoriamo, bisogna aspettare trenta, quaranta, cinquant’anni per vedere.

Oggi sappiamo che se ne possono sopravvivere sessanta di anni, ma non è affatto da tutti; sicuramente è da Rolling Stones, anzi, citando l’adagio secondo il quale i fans della lingua più famosa di sempre si dividono in due categorie, quelli che vanno all’ultimo concerto dei “Rolling”, perché fa figo, e quelli, autentici come solo uno zoccolo granitico può essere, che vanno a sentire gli “Stones”, sei decadi sono così, da Stones, duri come le pietre; col tempo avremmo imparato ad amare sempre più Mick e il suo controllo del palco, Keith Richards e i suoi riff, la fantasia e le sigarette di Ron Wood e tutto il resto.

Per questo, nonostante il corso delle cose, colpisce profondamente la scomparsa di Charlie Watts, da poco ottantenne, pesa l’immagine di quella batteria su cui il collega Richards ha appeso il cartello “closed”, quella macchina del ritmo che per un attimo si è fermata e ha silenziato tutto, alla vigilia dell’entrata nella settima decade di attività. L’immaginario collettivo del rock è ferito, consapevolmente o meno, non è possibile che uno degli Stones originali se ne vada, che i giganti si sgretolino, che una memorabile stagione si chiuda. L’assenza di quest’uomo pesa e peserà come un macigno, ancor più per quel suo essere una grande star del rock senza minimamente voler essere una rock star, un gentleman quasi capitato per caso, con quel suo volto impassibile e ironico, in mezzo a un manipolo di scalmanati dal grande talento e con la vocazione della star. Charile Watts, schivo, essenziale, equilibrato (piace sempre dipingerlo così), ha assicurato benzina al motore dei Rolling Stones per un tempo lunghissimo e a detta dei compagni, è stato il vero collante dello storico ensemble. Apparteneva a una generazione antica, quella di Ringo Starr, Mick Avory (tra l’altro nella proto-formazione degli Stones), John Steel, Keith Moon, gente comunque basilare che avrebbe dettato i codici fondamentali per i decenni a seguire, contando su un istintivo senso del ritmo, più che su un formale curriculum.

Era figlio di un tempo in cui bisognava pensarci bene prima di lasciare un lavoro certo (quello di grafico) per una carriera da cui traspare un’incognita: in fondo si può sempre suonare la sera per passione. Jagger e gli altri faticarono non poco per convincerlo, mentre Ian Stewart, tra un boogie e l’altro, con il suo lavoro al colosso della chimica ICI, “faceva mangiare tutti”. Charlie cedette alle insistenze nel gennaio 1963, dopo essersi fatto le ossa in seno ai Blues Incorporated e ad altre formazioni, in un periodo in cui l’Inghilterra era piena di jazz tradizionale e giurava vita corta al nascente movimento r&b (“A loro noi non piacevamo”, cit. Brian Jones). Eppure, blues a parte, era proprio il jazz la passione di Charlie, passione che avrebbe coltivato per tutta la vita, sintetizzata in notevoli capitoli discografici, tanto con piccoli gruppi (“quintet” e “tentet”), quanto con la sua “Orchestra” (celebre il “Live At Fulham Town Hall” del 1986). Erano Elvin Jones, Gene Krupa, Charlie Parker, il be-bop, lo swing come elemento stilistico e ancora soprattutto Buddy Rich e Max Roach, il bagaglio che portò nella band, oltre al drumming di tanti residenti in quella terra di nessuno chiamata rhythm and blues, Ben Benjamin, Earl Palmer, Fred Below, Al Jackson tra gli altri; un mix che splendeva in tutta la sua evidenza già nel primo album del gruppo, omonimo del 1964, il cui incipit, per combinazione, consisteva nell’irresistibile rullata di “Route 66”.

John Bonham dei Led Zeppelin condivideva tale entusiasmo per lo swing e dichiarava, già negli anni Settanta, il suo rispetto per Charlie, risollevando in buona misura la sua figura di “elementare” in tempo di rock da virtuosi (sorte più tardi toccata in parte all’amico Ringo); possiamo immaginare quanto il diretto interessato non se ne curasse poi troppo. Bohnam, come tanti, indicava come marchio del sound degli Stones, proprio lo spostamento e la frammentazione degli accenti rispetto a un beat regolare (“ma all’interno di questo”), quel leggero, perenne e quasi impercettibile ritardo sul quale Keith Richards insisteva con i suoi spunti chitarristici, nonché la frequente mancanza di unisono tra “hi-hat” e rullante. Un sound difficile da imitare: il batterista Lars Ulrich (Metallica), giustamente notava come “tutti pensano di ballare e muoversi come Mick, invece lo stanno facendo con Watts”. Soprattutto Charlie conosceva l’arte del “less is more”, l’eliminazione del superfluo, il mettere lo strumento al servizio completo della canzone, rendendo possibile quel filo conduttore che nasce dal ritmo doppiato di Satisfaction e si sviluppa attraverso l’intero “songbook” del gruppo, fino a tempi recentissimi, fino a ieri.

Nonostante i fragori dell’epoca dei grandi eroi virtuosi del rock, egli ha continuato a tenere il suo tempo, quasi dietro le quinte, garantendo infinita sicurezza ai colleghi sul palco. Per questo, nel corso degli anni, molti di quegli stessi, fiammeggianti eroi, da Ginger Baker, a Michael Shrieve, Roger Taylor, Ian Paice, Hal Blaine, Jim Keltner, tutti hanno dichiarato la propria ammirazione per questo grande artista. Per questo il rock degli Stones sarebbe stato sempre seguito dal quel proverbiale “roll”, per usare le parole di Mike Edison, autore del testo Sympathy For The Drummer: Why Charlie Watts Matters. Il quale Edison prosegue: ”Se i Rolling Stones sono la miglior rock’n’roll band di tutti i tempi, allora Charlie Watts è il miglio batterista rock’n’roll di sempre. Nessuno sopra lui”. Una equazione semplice e forse veritiera; semplice come quell’”impercettibile ritardo”, senza il quale il sound della più grande band di tutti i tempi, non sarebbe forse stato lo stesso.


    

 


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