Nuovo
Dylan? Per carità, non parliamone neanche: John Prine è
stato e sempre sarà un originale della canzone americana, non
tanto nella forma musicale (seppure il suo pigro sobbalzare tra country,
folk e rock'n'roll è assurto a nuovo standard del genere), quanto
nella scrittura ironica, capace di grande profondità e molta
spensieratezza. Un americano semplice ed uno storyteller coi fiocchi,
alla cui scuola hanno studiato in tanti, rubandone pazientemente i migliori
segreti per una carriera lunga e indipendente.
di Nicola Gervasini
::
Il ritratto
10 ottobre 1946, Maywood, Illinois, 7 aprile 2020, Nasshville, Tennessee
"Non so da dove venga, ma ho un idea precisa su dove stia andando. Siamo
andati via col ricordo di quanto sia magnifico essere scossi da una vera
Immaginazione Creativa". Kris Kristofferson concludeva così, nel 1971,
le note di copertina del primo album di John Prine (purtroppo omesse
nella riedizione in cd), dove si raccontava il suo primo impatto con questo
giovane autore in un locale di Chicago. Quella serata fu un vero colpo
di fortuna per questo venticinquenne dell'Illinois, in quanto fu proprio
Kristofferson, ai tempi "new kid in town" della scena di Nashville grazie
ad alcuni successi di classifica prestati ad altre voci, a fargli ottenere
un contratto con l'Atlantic Records, una major discografica che nei primi
anni settanta partecipava con grandi mezzi a una strana corsa all'oro
per cercare il "nuovo Dylan", visto e considerato che quello vero si era
rintanato nella casa di Woodstock a crescere figli e registrare dischi
country. L'etichetta di "The New Dylan", affibbiata in quegli anni anche
ad altri giovani cantautori come Loudon Wainwright III, Elliott Murphy,
fino a Bruce Springsteen e persino inizialmente a Tom Waits, risulterà
essere una sorta di condanna per la sua carriera. Anche perchè John Prine
era semplicemente John Prine, un artista che ha cambiato il modo di scrivere
e di intendere la canzone d'autore nella cultura americana, con un peso
difficilmente quantificabile, ma particolarmente evidente nei dischi delle
ultime due generazioni di songwriters. L'importanza dell'artista è però
identificabile e riassumibile in tre termini: Ironia, Semplicità e Indipendenza.
Nelle tradizioni country e folk il raccontare una storia divertente e
farci una canzone-burla era prassi più che consolidata. Ma i confini tra
storia d'amore, romanza epica, canzone di protesta e invettiva satirica
erano sempre stati netti. Bob Dylan, sempre lui, provò a unire protesta
e satira con canzoni come Talkin' John Birch Paranoid Blues, comici talking
blues che guarda caso non sono considerati tra i suoi classici imprescindibili.
Eppure se proprio a Dylan bisognava guardare, era a questo Dylan minore
che Prine si rifaceva, portando il discorso alle estreme conseguenze:
nel suo songwriting l'elemento ironico è presente trasversalmente, sia
che si tratti di una storia tragica, una dichiarazione d'amore o di un
racconto scanzonato. Iniziare una canzone con un verso come Sally used
to play with her hula hoops, now she tells her problems to therapy groups
rende bene l'idea di come l'autore maneggi contemporaneamente Tragedia
e Commedia con perfetto equilibrio. La semplicità è invece il suo marchio
di fabbrica più riconosciuto, semplicità dei personaggi raccontati, losers
che non riescono neanche ad avere l'epica forza per correre springsteenianamente
verso una rivalsa umana, che semplicemente si siedono e perdono con l'amaro
sorriso sulle labbra. La semplicità delle sue tipiche ballate, spesso
strutturate come filastrocche, quasi si rivolgesse ad un pubblico di eterni
bambini, è lo stampino usato oggi da tantissimi giovani autori. E naturalmente
la semplicità dei suoi sentimenti, amori onesti, senza miraggi di terre
promesse o di fiumi in cui rinascere a nuova vita, ma piccoli pensieri
da esprimere all'interno della cornice del quotidiano. Infine l'indipendenza:
quando nel 1981 Prine convinse il proprio manager Al Bunetta a
fondare una propria etichetta, la Oh Boy Records, l'idea era rivoluzionaria,
quanto piuttosto strampalata. Di fatto mai come negli anni ottanta il
potere delle major piloterà il mercato discografico, facendo letteralmente
sparire dalla circolazione gran parte degli artisti che avevano animato
la musica dei due decenni precedenti, ormai considerati obsoleti. La scelta
di auto-prodursi e di auto-distribuirsi era in anticipo di vent'anni rispetto
alla realtà odierna, dove le major ormai sono regolarmente by-passate
dalle produzioni indipendenti e sembra che abbiano anche perso interesse
a contrastarne la diffusione. Ma per promuovere i dischi negli anni ottanta
non esisteva internet, e quella che per dieci anni buoni sembrò una sconfitta
(i suoi tre titoli del decennio finirono presto nel dimenticatoio), diverrà
una clamorosa vittoria nel 1991 quando The Missing Years
riuscì ad essere un album perfettamente prodotto e commerciabile. Se da
allora le cose cominciarono lentamente a cambiare nel mondo della discografia,
molto lo si deve anche a Prine e alla Oh Boy, etichetta che grazie al
successo del padre lancerà nomi importanti come il discepolo Todd Snider
e molti altri meno di grido come RB Morris o Dan Reeder, fino a dare asilo
politico anche ai vecchi amici Steve Goodman, Donnie Fritts e, saldando
un vecchio debito di riconoscenza, allo stesso Kris Kristofferson.
:: Il capolavoro
John
Prine [Atlantic 1971]
1.
Illegal Smile // 2. Spanish Pipedream // 3. Hello In There // 4 . Sam Stone //
5. Paradise // 6. Pretty Good // 7. Your Flag Decal Won't Get You Into Heaven
Anymore // 8. Far From Me // 9. Angel From Montgomery // 10. Quiet Man // 11.
Donald and Lydia // 12. Six O'clock News // 13. Flashback Blues
Indicare
come capolavoro di un artista il primo album non è sempre un buon segno, ma nella
storia della canzone americana è difficile trovare un esordio così perfetto e
pieno di canzoni più volte rivisitate da altri importanti artisti. Album insolitamente
lungo per l'epoca, John Prine potrebbe essere tranquillamente considerato
come il greatest hits del primo periodo dell'artista. Prodotto da Arif Mardin,
che era il produttore d'ufficio dell'Atlantic Records, nonchè l'uomo che creò
i maggiori successi di Aretha Franklin, Laura Nyro e Dusty Springfield (e negli
anni ottanta dei Culture Club…), l'album è splendidamente suonato da una band
di validi turnisti, tra cui il fido chitarrista Reggie Young e Steve Goodman.
Tutti i brani sono memorabili e presentano una galleria di personaggi che sono
entrati nella tradizione americana: il drogato di Illegal
Smile, la sublime poesia sulla vecchiaia di Hello
In There, brano reso celebre anche da Joan Baez e Bette Middler, o
il reduce del Vietnam di Sam Stone, che si
ritroverà anche nei repertori di Johnny Cash, Laura Cantrell e Georgie Faith.
E non si possono dimenticare il timido avventore del bar innamorato della cameriera
raccontato in Far From Me (in Italia Francesco
Guccini se la ricorderà senza tributo nella sua Autogrill) o la triste romanza
d'amore di provincia di Donald & Lydia (qui
il plagio nostrano arriverà con Anna e Marco di Lucio Dalla). La hit del disco,
e forse di tutta una carriera, è Angel From Montgomery,
una canzone che fece scalpore in quanto il soggetto è al femminile e racconta
le confessioni di una vecchia rodeo-girl. Che un uomo scrivesse una canzone dove
le donne non erano il parco di divertimenti dei vecchi cowboy, come la maschia
tradizione nashvilliana voleva, ma fossero a loro volta "soggetti" sessuali (When
I was a young girl well, I had me a cowboy recita un verso a dir poco rivoluzionario)
contribuì non poco a rompere alcuni steccati mentali del mondo country-folk americano.
Non a caso la canzone entrò nel repertorio di Bonnie Raitt, che ne fece una vendutissima
hit, ma la cantarono altre donne come Carly Simon e più recentemente Susan Tedeschi.
Alla divertente Your Flag Decal Won't Get You Into Heaven
Anymoreil compito di anticipare la componente ironica che diventerà
fondamentale solo più avanti, alla splendida Paradise quello di raccontarci in
pochi versi un intera infanzia.
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Dischi essenziali
Sweet Revenge [Atlantic 1973]
Toccò
al terzo sorprendente album rappresentare tutta l'ironia di Prine
e la sua voglia di uscire dai cliché in cui rischiava di rimanere
imprigionato dopo l'insuccesso del secondo album. La copertina
che lo ritraeva in una improbabile irriverente posa da bullo,
quasi a voler per forza sporcare un immagine troppo da "good ol'
boy", uno stuolo di session man al suo servizio, la produzione
di nuovo attenta di Arif Mardin, un suono pieno, pulito,
semplicemente perfetto, addizionato con cori femminili, fiati,
intrecci di chitarre, banjo, steel guitar…. Sweet Revenge
è una festa per le orecchie, probabilmente il suo album più perfetto
dal punto di vista produttivo, ma a farne un disco speciale sono
soprattutto le canzoni, impietose, ciniche, apparentemente senza
cuore nel dissacrare il dissacrabile, nel fare a pezzi gli schemi
sentimentali dell'America crepuscolare dei primi anni settanta.
Laddove i "fuorilegge" del nuovo country di Nashville picconavano
le fondamenta morali di una nazione messa in ginocchio dal Vietnam
e dalla conseguente crisi di coscienza, Prine provava e mettere
tutto alla berlina, a canzonare sé stesso per irridere un mondo
che lo aveva già messo in disparte (nella title-track si fa dire
"We never liked you any way" persino dal lattaio!). Inutile
dire che non venne capito, il pubblico e la critica furono ammaliati
dal brioso mix di country-rock, hillbilly e persino mariachi messicani
(Mexican Home), ma davanti
a canzoni che iniziavano dicendo "mi sono svegliato stamattina,
mi sono messo le mutande, sono andato in cucina e sono morto"
rimanevano solamente interdetti. E nessun altro artista questa
volta ebbe davvero il coraggio di riproporre brani irripetibili
come Onomatopeia o Please
Don't Bury Me, per non parlare diDear
Abby, registrata dal vivo per dimostrare la dimensione
quasi da cabaret dei suoi concerti. Eppure c'era ovviamente posto
anche per canzoni di gran spessore poetico come Christmas
In Prison, Blue Umbrella o
A Good Time, tutti brani che
avrebbero meritato ben altri onori. Noi ridiamo ancora adesso,
ma l'America non ci trovò proprio nulla di divertente.
Bruised Orange [Asylum/ Oh Boy 1978]
Nonostante
Common Sense del 1975 risulti essere l'unico album degli anni settanta ad entrare
nei top 100 di BillBoard (raggiunse la 66° posizione), l'Atlantic licenziò John
senza tanti complimenti, non prima di aver pubblicato una raccolta che viveva
più che altro sui brani del primo disco. Dopo tre anni passati alla ricerca di
un contratto discografico, John approda alla Elektra/Asylum, etichetta benemerita
e attenta anche alla qualità, che ospitava, tra gli altri, anche le bravate di
Tom Waits. Il primo disco del nuovo corso viene registrato a Chicago senza neanche
tanta convinzione, con la produzione del vecchio amico Steve Goodman e
una copertina che tono più dimesso non poteva avere. Eppure forse proprio perché
frutto di poche pressioni e di una semplice ricerca di quella semplicità di cui
sopra, Bruised Orange rappresentò un piccolo miracolo artistico
che riportò in auge il nome di Prine tra gli appassionati. Non ci sono canzoni
particolarmente storiche, eppure la poesia di queste storie di veri losers fa
sì che probabilmente sia questo disco, più che il primo, il vero punto di riferimento
di tutti i cantautori americani che negli ultimi vent'anni hanno saccheggiato
e imitato lo stile di John Prine. Emblematica ad esempio la storia diSabu Visits The Twin Cities Alone: Sabu
era un indiano di 38 anni (ma recitava la parte di un ragazzino di 14) che cavalcava
un elefante in una serie di fortunati film americani dell'epoca. Visto il successo
del personaggio tra il pubblico under 16, la casa di produzione gli organizzò
un fallimentare tour per gli States, ma il povero Sabu, che mai in verità era
uscito dall'India, si ammalò preso da una sorta di "saudade" per il suo paese,
nostalgia peggiorata dal fatto che anche i roadies si ammalarono a causa del freddo
del Midwest e le linee aeree persero l'elefante tra i bagagli (sic!). Ancora una
volta l'ironia del racconto serve ad evidenziare in maniera ovviamente autobiografica
il deciso gap esistente tra chi crea e chi amministra, tra chi è e chi fa essere.
Ma il vero testo che riassume tutta la poetica di Prine è That's
The Way The World Goes Round (You're up one day and the next you're
down"…) che vede protagonista un personaggio al colmo della disgrazia, fino al
vero inno di ogni loser, la finale The Hobo Song.
The Missing Years [Oh Boy 1991]
Solo
la splendida ironia di Prine poteva paragonare il suo esilio dal
mondo dello show-business agli anni perduti di Gesù Cristo. Eppure
per lui quest'album rappresentò una vera resurrezione, sia artistica
che commerciale, nonché una delle prime vittorie di una produzione
indipendente ai Grammy Awards. Registrato a Los Angeles, prodotto
da Howie Epstein, al secolo bassista degli Heartbreaker
di Tom Petty, (presenti comunque al completo in session e garanti
di un suono più volto al rock), il successo dell'album fu aiutato
anche da una sorta di parata di grandi nomi del rock americano,
da Bruce Springsteen allo stesso Petty, da Bonnie Raitt a Phil
Everly, da John Mellencamp fino alla chitarra eccellente di David
Lindley, tutti disciplinatamente in fila per omaggiare il maestro.
Album lungo, con pochi momenti di stanca, The Missing Years
offre una serie di nuovi classici e un nuovo modo di scrivere
di Prine. Non più solo storie di losers o significativi quadretti
della provincia americana, ma una serie di versi interiori, vere
e proprie poesiole sui sentimenti e la voglia di comunicarli.
In questo senso Everybody Wants To Feel
Like You potrebbe essere presa ad esempio come canzone
perfetta: un arpeggio acustico, una filastrocca apparentemente
semplice ed un testo che segue la musica per ribadire che "everybody
wants to be wanted". Anche All The Best,
Unlonely o You
Got Gold sono piccole lettere d'amore che nessuno di
noi avrebbe la capacità di esprimere in maniera così naturale
e diretta. Spazio anche al rock con la cinematografica Picture
Showe Take a Look
At My Heart, scritta a due mani e cantata con John
Mellencamp, che restituì il favore fatto ai tempi di Uh-Huh per
la co-intestata Jackie O. Il suo capolavoro moderno.
Lost Dogs And Mixed Blessings [Oh Boy 1995]
Bisogna
avere un certo senso della sfida ad inserire tra i dischi essenziali
un relativo flop come Lost Dogs And Mixed Blessings.
Il seguito del fortunato The Missing Years si fece attendere ben
quattro anni, e nonostante le vendite fossero comunque buone per
i bassi standards abituali del nostro, l'album ricevette critiche
poco entusiaste e rimane il meno amato dai fans più incalliti.
Confermato Epstein in regia, Prine, finalmente libero da condizionamenti
e ansie da prestazione, in questo disco diede sfogo a tutte le
sue idee apparentemente più campate in aria. Di fatto Lost Dogs
è un caleidoscopio di suoni, voci, arrangiamenti pompati, sovra-registrazioni
esagerate, un esplosione di humor e colori fin dalla copertina.
Tutto il contrario della seriosamente ispirata immagine data dal
precedente album, e per molti John perse il senso della misura.
Ma forse questo è il disco in cui meglio si esprime tutta la sua
gioia di vivere e la voglia di fare musica, e, oltretutto, queste
14 canzoni entrano di diritto nel meglio che la sua penna ci abbia
mai offerto. Difficile infatti prescindere dalle storie dei bambini
indiani di Lake Marie, dalle
splendide ballate di Day Is Done
e I Love You So Much It Hurts,
dalle gioiose New Train eBig Fat Love, fino alle
scanzonate Same Thing Happened To Me
e I Ain't Hurting Nobody.
A sostegno dell'album ci fu una bella tournee documentata dal
più che discreto Live On Tour del 1996 (con tre inediti in studio
abbastanza di routine) e che toccò anche l'Italia.
Fair & Square [Oh Boy 2005]
In
un certo senso il pubblico di Prine era arrivato a questo disco
sfinito per la lunga attesa (10 anni), ma già tranquillizzato
da alcune rassicuranti produzioni in controtendenza rispetto ai
fuochi d'artificio sonori di Lost Dogs. Prima il bel tributo al
lato femminile della musica country di In Spite Of Ourselves,
in cui la voce di Prine si confrontava con quella di vere regine
del genere come Lucinda Williams o Iris DeMent, poi Souvenirs,
un album in cui Prine riproponeva alcune canzoni del passato in
un puro e rigoroso stile acustico. Unanime dunque il sospiro di
sollievo della critica a rivederlo "leale e onesto" camminare
sulle impolverate strade della tradizione con una semplice chitarra,
come ogni vero "hobo" che si rispetti. Mai copertina fu dunque
più rivelatrice del contenuto: qui John Prine fa il John Prine,
scrive le sue tipiche ballate in cui parla di sentimenti e mette
come al solito alla berlina i comportamenti umani. E fa anche
un gran bel John Prine, con un pugno di canzoni di gran livello,
con pochi colpi di testa negli arrangiamenti (produce lui stesso
d'altronde) e molto arrosto sul fuoco, con alcuni nuovi piccoli
classici come She Is My Everything
e Morning Train, dove risalta
anche la voce della bella Allison Krauss. Niente di veramente
eccezionale, niente di cui spaventarsi, Fair & Square
è l'album più regolare che Prine potesse fare, l'esatto opposto
della totale anarchia di Lost Dogs, difficile amarli entrambi
in egual modo, a meno che non decidiate di amare Prine e basta.
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Il resto
Diamonds in the Rough [Atlantic 1972]
Se
il secondo album rappresenta per molti artisti la classica buccia di banana, per
Prine rappresentò un vero e proprio disastro, che praticamente gli costò quella
carriera ad alti livelli che qualcuno auspicava. Quella di Arif Mardin
diventa volutamente una "non-produzione", con suoni decisamente poco vivi e la
decisione di affidarsi solo all'estro delle chitarre di Steve Goodman e David
Bromberg. La Atlantic spinge sempre più perché Prine diventi il nuovo simbolo
del folk americano e quello che ne esce è un album serio, cupo e senza ironia,
ostinatamente legato a schemi compositivi consolidati. Ignorato dal pubblico e
poco considerato dalla critica del tempo, l'album è comunque lontano dall'essere
un fallimento artistico e offre alcuni cavalli di battaglia della prima ora come
Souvenirs, The Late
John Garfield Blues, Clocks And Spoons
e Sour Grapes, oltre a due gran belle composizioni
come Billy The Bum e The
Great Compromise. Purtroppo, oltre alla presenza di qualche brano non
all'altezza della situazione, è proprio la performance di Prine ad essere troppo
contenuta e ligia alle ferree regole di uno stile che cominciava a stargli davvero
stretto.
Common Sense [Atlantic 1975]
Galvanizzata
dai riscontri positivi di critica per il precedente Sweet Revenge l'Atlantic torna
alla carica e tenta una nuova operazione marketing su Prine: via l'indeciso Mardin,
la produzione viene assegnata a Steve Cropper, chitarrista di casa Stax,
noto collaboratore di Otis Redding e successivamente famoso come sei corde della
Blues Brothers Band. Grazie al budget alto, Cropper porta Prine a registrare a
Memphis con il fido collaboratore Donald "Duck" Dunn e successivamente a Los Angeles
per coinvolgere nomi altisonanti della West Coast come Jackson Browne, Bonnie
Raitt, Glenn Frey e J.D Souther. Le critiche di un tempo lo liquidarono brutalmente
come un esperimento poco riuscito di disco soul-rock, oggi, che a certe commistioni
siamo più che abituati, lo considereremmo solo un buon disco di rock americano.
E se effettivamente la cover di You Never Can Tell di
Chuck Berry non è nelle sue corde e qualche brano scende di tono, Middle
Man, Common Sense e Wedding
Day In Funeralville sono brani imprescindibili per la sua storia. E
Saddle In The Rain, coi suoi fiati da New
Orleans, è pure un capolavoro.
Pink Cadillac [Asylum / Oh Boy 1979]
Nelle
divertenti note di copertina Prine dichiara che l'intento dell'album è innanzitutto
non annoiare i produttori (!). Registrato a Memphis in 5 settimane e con più di
500 ore di registrazioni (chissà se un giorno verranno mai fuori…), Pink
Cadillac mostrò il volto di un nuovo John Prine fin dalla copertina, dove
il nostro si mostra bello e sicuro di sé. E addirittura, giusto per inquadrare
l'aria che tira, sulla copertina appare anche la dicitura "For maximum listening
pleasure play it loud", fino a quel momento impensabile in un suo disco. Con la
parola "fun" in testa come parola d'ordine tassativa, Prine registra effettivamente
un disco brioso e stupendamente arrangiato dal trio di produttori Knox, Jerry
e Sam Phillips, che ha però l'unica pecca di essere un disco inevitabilmente minore
per il pesante ricorso a materiale altrui (solo 5 canzoni su dieci sono sue).
L'album è una girandola di stili e suoni nuovi, dalla rockeggiante chitarra di
Saigon allo shuffle alla Bo Diddley di No
Name Girl, dal blues di Baby Let's Play The
House e il rockabilly di Ubangi Stomp,
al Nashville country di This Cold War With You,
l'insieme porta alle estreme conseguenze quanto aveva tentato di fare in Common
Sense. Potrebbe essere un album superfluo, se non fosse che tra le canzoni autografe
compare la dylanianissima tragica storia di Down By The
Side Of The Road, una delle sue canzoni migliori di sempre.
Storm Windows [Asylum / Oh Boy 1980]
L'ultimo
capitolo della breve storia con l'Asylum viene consumato nientemeno che nei mitici
Muscle Shoals Sound Studios con il produttore e tastierista Barry Beckett,
vero factotum di casa Stax. Stesso piglio country-rock del precedente Pink Cadillac,
ma più focalizzato e tarato sulle effettive potenzialità di Prine, Storm
Windows offre una serie di deliziose canzoni che in un certo senso anticipano
di dieci anni lo stile mostrato in The Missing Years. Vanno in questo senso soprattutto
alcuni soffici ballate come Sleepy Eyed Boy
o It's Happening To You, mentre le radici
country stavolta vengono sottolineate dalla lenta All
Night Blue. Il livello è generalmente buono, e tocca poi vette altissime
nella title-track, uno dei momenti più poetici e malinconici del suo repertorio,
e che da sola vale il disco. I momenti di divertimento sono assicurati dall'impietosa
Shop Talk, la rock and rollI
Just Wanna Be With Youe una Baby Ruth
che strizza l'occhio ai momenti più rock degli Eagles. Un bel disco per affrontare
decisi un decennio che purtroppo non lo accoglierà certo a braccia aperte.
Aimless Love [Oh Boy 1984] German
Afternoons [Oh Boy 1986]
Gli
unici due album in studio degli anni ottanta sono stati per molto tempo un mistero,
visto che fino alla riedizione in cd risultavano pressoché introvabili per i più.
Primi pionieristici esempi di autoproduzione, i due dischi sono stati registrati
a Nashville in collaborazione con il produttore Jim Rooney. Il fatto che
German Afternoons (il cui titolo richiama il servizio militare prestato
in Germania, proprio come Johnny Cash) sia il numero di catalogo immediatamente
successivo ad Aimless Love, nonostante sia uscito quasi tre anni
dopo, rende bene l'idea di come se la passasse male in quel periodo Prine e la
sua neonata etichetta Oh Boy. Registrati effettivamente in maniera sommaria e
privi di qualsiasi appeal estetico nei suoni (prettamente acustici) e nel modo
di cantare del nostro (cosa che li rende abbastanza simili a Diamonds In The Rough),
i due album però rappresentarono la piena rinascita del Prine autore, che sciorina
veri e propri capolavori di scrittura come Unwed Fathers
(che entra anche nel repertorio di Johnny Cash), PeoplePuttin' People Down o The
Oldest Baby In The Worldsul primo e Speed
Of The Sound Of Loneliness, di cui esiste una splendida versione di
Nanci Griffith, sul secondo. Peccato che non se ne accorse nessuno, e storia vuole
che l'unico riscontro venisse dal pubblico più tradizionalista del circuito country
nashvilliano, che fece avere una nomination ai Grammy Awards alla cover di Lulu
Walls della Carter Family.
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Riepilogo (discografia)
John Prine
(Atlantic, 1971)
Diamonds In The Rough (Atlantic, 1972) 1/2
Sweet Revenge (Atlantic, 1973)
Common Sense (Atlantic, 1975) 1/2
Prime Prine (Atlantic, 1976 antologia)
Bruised Orange (Asylum / Oh Boy, 1978) 1/2
Pink Cadillac (Asylum / Oh Boy, 1979) 1/2
Storm Windows (Asylum / Oh Boy, 1980)
Aimless Love (Oh Boy,1984)
German Afternoons (Oh Boy, 1986) 1/2
John Prine Live (Oh Boy, 1988) 1/2
The Missing Years (Oh Boy, 1991)
Great Days: The John Prine Anthology (Rhino,
1993 - cofanetto 2 cd)
A John Prine Christmas (Oh Boy, 1993)
Lost Dogs And Mixed Blessings (Oh Boy, 1995)
Live On Tour (Oh Boy,1997) 1/2
In Spite Of Ourselves (Oh Boy, 1999) 1/2
Souvenirs (Oh Boy, 2000) 1/2
Fair And Square (Oh Boy, 2005)
Standard Songs For Average People (Oh Boy, 2007
- con Marc Wiseman) 1/2