Quattro o cinque secondi prima dell'attacco di
Dogs On The Run si sente il respiro affannoso di un cucciolo che sta leccando
la sua ciotola, probabilmente in omaggio ai soggetti principali della canzone,
e al periodo "da cani" di Southern Accents. Con il vinile è più facile cogliere
quello strambo dettaglio (la perfezione digitale non ha mai prediletto certi calembour),
ma è solo un attimo, comunque, perché quando gli Heartbreakers partono all'unisono
con le chitarre, organo e batteria nella prima strofa si è già proiettati in una
ballata da toni duri e realistici, senza ritornello, con un inciso di chitarra
sul cui sfondo suonando ridondati e ombrosi i fiati. Il finale è troncato, proprio
come l'attacco: una grande canzone, amatissima dai fans, ma che non ha avuto altrettanta
fortuna dal vivo. Resta il perché di quello scherzo iniziale, ma Tom Petty
non era insolito a spargere schizzi, frattaglie, commenti prima o dopo le canzoni
(come non ricordare l'intro di Even The Losers?).
Se ne trovano
parecchi, come non poteva essere diversamente, anche in An American Treasure:
i proclami dello stesso Tom Petty e di Kareem Abdul-Jabbar, i jingle per annunciare
al mondo gli Heartbreakers, tutti spruzzati come coriandoli su un baule scoperchiato
che celebra il legame con la musica in una connessione profonda e nello stesso
tempo immediata. Sì, qui non c'è Dogs
On The Run, ma dentro si trova davvero The Best of Everything:
c'è il Tom Petty che dal 1976 di Surrender
(una canzone che per anni ha provato a trovare il suo posto, a partire da Damn
The Torpedoes) fino a Hungry No More dei ritrovati
Mudcrutch nel 2016. La raccolta compone con naturalezza, persino con una certa
dolcezza, l'evoluzione di Tom Petty, inestricabile dagli Heartbreakers
(e, in secondo piano, dai Mudcrutch). L'approccio è sempre stato diretto, da membro
di una rock'n'roll band: dall'irruenza iniziale (un'energia che, in effetti, non
se ne è mai andata), alla ricerca costante dentro la formula della canzone, quello
spirito indomito, che l'ha visto attraversare anche momenti cupi, poi via via
fino una consapevolezza sempre più matura. È su quello che si concentra la retrospettiva
di An American Treasure, escluse tutte le deviazioni laterali (Bob Dylan, i Traveling
Wilburys, le produzioni, gli esperimenti). Nel modellare il primo passo del ricordo,
sono state levigate tutte le divagazioni (musicali) di cui la carriera di Tom
Petty è costellata, certe variazioni nella sfida con suoni e arrangiamenti "moderni".
Una
prospettiva stretta attorno alla carriera di Tom Petty che, riconoscendo una storica
fortuna, diceva: "Siamo cresciuti in un momento in cui la musica era davvero
ricca e buona e abbiamo cercato di farla a modo nostro, senza copiare gli altri.
Tutto si mescola e così viene fuori qualcosa di tuo". È una collocazione che
determina un nuovo standard, e su questo non c'è alcun dubbio, sia per la vita
in studio di registrazione che dal vivo, dove Tom Petty aveva elaborato una disciplina
non distante da quella di James Brown. È vero che The
Live Anthology resta un monumento, ma An American Treasure continua
la celebrazione degli Heartbreakers nel loro ambiente naturale, ovvero sul palco.
Qui è come stappare dei vini d'annata (molto "expensive"): ci sono A
Woman in Love (It's Not Me) e King's Road del 1981 (con uno
straripante Stan Lynch), Into the Great Wide Open del 1991 e Two Gunslingers
del 2013, Saving Grace, Southern Accents
e Insider del 2006 e, per ricordare che quanto a intensità non facevano
differenza tra studio e palco, anche le pregiatissime Listen
To Her Heart e Breakdown dal vivo nei Capitol Studios nel 1977.
Un'attenzione particolare va dedicata all'intensa rendition di I
Won't Back Down al Fillmore, San Francisco, nel 1997. Una canzone che,
in qualche modo, dai Pearl Jam a John Fogerty, è stata scelta spontaneamente da
tutti per ricordarlo. È quindi giusto che sia la voce di Tom Petty a riappropriarsene
in un'interpretazione essenziale, con gli accordi sulla chitarra elettrica, e
poco altro, anche perché la versione migliore non sarà mai su nessun disco. È
quella che hanno cantato novantamila persone nella bolgia di The Swamp, ovvero
lo stadio dei Florida Gators. Sentitela (e guardatela),
e se non vi commuovete è perché, cito testualmente, avete "un bidone dell'immondizia
al posto del cuore".
Ad arrivare a quel punto non è Tom Petty, non sono
gli Heartbreakers, sono le canzoni. Un ibrido tra mille influenze che, con quelle
melodie fantastiche e la spontaneità dei testi, collimano in tutte le parti. An
American Treasure rappresenta l'essenza dei processi compositivi di Tom
Petty, ma non tutte le strade che ha fatto. Per dire, l'articolazione del primo
cofanetto retrospettivo, Playback, era molto più efficace, ma era un altro secolo.
An American Treasure delimita con precisione un'idea di un songwriting dentro
una rock'n'roll band e idealmente orbita attorno a Southern Accents e Wildflowers.
Album che, in modo diverso, sono stati altrettanti punti di non ritorno. Southern
Accents è stato un casino, frutto di una pericolosa commistione di ambizione e
follia. All'inizio doveva essere un concept album sulle radici e sulle tradizioni
sudiste, ma poi è andato sfarinandosi in qualcosa che conteneva di tutto (un po'
troppo). Complice un periodo di abitudini malsane, l'idea è rimasta ancorata alla
copertina e a metà delle canzoni. In An American Treasure, si sente nell'outtake
di Walkin' From The Fire (un solenne tributo al southern rock) e in Rebels,
scelta da Ryan Ulate tra trentanove diverse take. Alla biblica quarantesima non
ci sono arrivati soltanto perché nel frattempo, sfiancato dalla frustrazione,
Tom Petty si era sfracellato la mano contro un muro.
Ricordi che tornano
da anni travagliati, ma sono lì a ripresentare le credenziali (tutte intatte)
di Southern Accents, che sarebbero tornate a galla, in seguito. Tom Petty,
parlando sullo sfondo di un muro di chitarre, diceva che Mojo ripartiva
ancora dai paesaggi sudisti, ma era un omaggio alla musica che gli Heartbreakers
amavano ascoltare e suonare quando non c'era nulla da provare, i dischi di Jeff
Beck o John Mayall, "con la chitarra sparata in faccia, come se fosse un'altra
voce", e nello stesso modo vanno considerate le tappe autobiografiche di Gainesville
e di Bus To Tampa Bay (outtakes rispettivamente di Echo e Hypnotic Eye).
Diverso il discorso di Wildflowers, capolavoro della maturità di Tom Petty. Un
momento che è una miniera in gran parte esplorata perché Wildflowers aveva la
prospettiva di essere un monumentale doppio album, ipotesi che trovò la resistenza
della Warner e che avrebbe dovuto confluire, in tempi recenti, in Wildflowers.
All The Rest. Parte delle outtake di quelle session furono disseminate in Songs
and Music from She's the One (tra cui la notevole Grew
Up Fast, qui tirata al lucido per l'occasione), ma spicca
Lonesome Dave, uno spericolato boogie (una delle outtake preferite
da Benmont Tench) che era stato concepito durante la pausa delle incisioni di
Wildflowers per produrre gli inediti da allegare al primo Greatest Hits. È una
parodia del rock'n'roll lifestyle, ispirata alla vita di Dave Peverett dei Foghat
(poi scomparso nel 2000).
La
morale è che mentre tutti gli altri perdevano tempo a costruirsi un immagine o
a vagare nel vuoto, Tom Petty e gli Heartbreakers passavano dal tour allo studio
e da uno studio all'altro. Su tutte vale la storia di
Louisiana Rain, riproposta in una struttura non dissimile da quella
finita su Damn The Torpedoes se non fosse, come ha spiegato Mike Campbell, che
l'alternate take recuperata da An American Terrazzare era la penultima versione
di una lunga serie, ed era riuscita molto bene (sentire per credere) soltanto
che, una volta finita, gli Heartbreakers si sono guardati e hanno detto, okay,
bella, questa è quella giusta, ma facciamone ancora una. In An American Treasure
c'è la testimonianza di un metodo di lavoro, e del lavoro in sé, che non era soltanto
rock'n'roll. Altre ne seguiranno, non c'è dubbio: a furia di insistere, Tom Petty
aveva la scoperto la capacità di rendere tutto semplice (anche quello che semplice
proprio non era) e, in questo, era seguito dagli Hearbreakers, come ha confermato
Scott Thurston: "Se è difficile, non lo facciamo". Lo diceva lì, nella Clubhouse,
il posto con le pareti foderate di chitarre, dove gli Heartbreakers provavano
e registravano (basta sentire You And Me,
per capire che le macchine erano sempre in funzione) e sembra di vederli ancora,
con Tom Petty a chiedersi: "Dobbiamo ereditare la nostalgia o vogliamo dare qualcosa
a questa musica?"
Bella, bellissima domanda, a cui An American Treasure
non risponde. Lasciando in campo l'ipotesi che, a tutti gli effetti, si tratti
di una prima pietra nel guado tra l'assenza e il ricordo. La musica non ci mancherà,
perché come hanno lasciato intendere Mike Campbell e Benmont Tench, An American
Treasure è soltanto la punta dell'iceberg di quello che si nasconde negli
archivi degli Heartbreakers. Quello che ci mancherà è la sua attitudine, la sua
coerenza, quello spirito e quel coraggio, quell'eccentricità. C'è un'altra canzone,
schivata da An American Treasure, che può raccontarlo ed è Runaway Trains.
La canzone viene dal sottovalutato Let Me (I've Had Enough), rappresentato tra
l'altro da un'alternate take di The Damage You've Done (altra grande canzone)
e spalancava tutta una visione su cui, per dire, i Radiohead sono stati giustamente
acclamati. Solo che era il 1987, Thom Yorke stava ancora imparando la differenza
tra le chitarre e le tastiere, Tom Petty girava il mondo con Bob Dylan, e l'intuizione
di Runaway Trains è rimasta lì, abbandonata "come un diamante", come molte altre
idee, in un'eredità troppo grande e troppo generosa per essere chiusa in una scatola
di dischi.