James McMurtry
"Last of the Troubadours"

Occhiali da professore, cappello da cowboy, una faccia all'apparenza anonima come le vite americane che racconta: doveva fare lo scrittore James McMurtry, una cosa di famiglia, è diventato invece uno dei più acuti storyteller della sua generazione. Per qualcuno scrive sempre la stessa canzone, per altri è un salvatore della specie Americana: nessuno ha torto, perchè l'arte del songwriting implica entrambe le soluzioni.

a cura di Fabio Cerbone

 
:: Il ritratto
 

Nel piccolo ranch texano del padre Larry i libri sommergono le stanze, ma James ci arriva tardi, dopo una vita spesa sulla strada fin dagli anni della adolescenza. Nasce a Forth Worth, ma è un semplice dettaglio: la sua dimora cambia a seconda delle esigenze di un padre scrittore, Premio Pulitzer nel 1985 grazie a Lonesome Dove, divenuta poi una famosa serie Tv con Robert Duvall e Tommy Lee Jones. Sballottato fra la Virginia, gli studi all'Università dell'Arizona e l'Alaska, il suo ritorno in Texas è rimandato di qualche anno, prendendo intanto coscienza della propria predilezione verso l'arte del songwriting. E' la madre Jo Scott McMurtry, professoressa di letteratura inglese, a donargli la prima chitarra, mediando probabilmente fra le sue passioni di insegnante e le esigenze più spicce di un figlio destinato al rock'n'roll. Un destino che tuttavia richiede pazienza, quasi che quel cognome sia un fardello pesante da portare sulle spalle. Si arrangia con tutto il giovane James, da imbianchino ad attore improvvisato, e nei ritagli di tempo partecipa a qualche open mic nei locali di San Antonio. È li che nasce l'idea di scrivere canzoni professionalmente, spedendosi in provini e concerti, fino a quando le strade del padre e del figlio in qualche modo si incrociano, o quanto meno servono a James per compiere il salto decisivo.

L'entrata in scena è assai tardiva, alla soglia dei trent'anni, e viene battezzata solo grazie all'interessamento di una stella di prima grandezza del rock americano di quegli anni, John Mellencamp, letteralmente coinvolto dalle prime demo tape del songwriter texano, un tizio che guarda caso ha a che fare con quel Larry McMurtry di cui John è un grande estimatore. Infatti, Mellencamp è alle prese con un suo script, Falling from Grace, da cui dovrà presto trarre il suo primo (e unico) lungometraggio in carriera. Nelle canzoni di James McMurtry ravvisa quella passione indelebile per l'arte del racconto, per un songwriting dal taglio letterario, fatto di descrizioni, personaggi, vite ai margini di un american dream sempre più scoperchiato e messo a nudo. È una dote che pare portata in dono dalla famiglia e dal padre, ovviamente, quella stessa penna che da Hud il Selvaggio allo strepitoso L'ultimo spettaccolo aveva racchiuso gli umori, i ricordi, le speranze di un Texas desolato, fra quelle small town (come le avrebbe chiamate proprio John Mellencamp) in perenne lotta con la modernità. Grazie al peso narrativo delle sue canzoni McMurtry si ritaglia immediatamente un posto in prima fila fra i continuatori di una tradizione, la stessa che ha visto nascere innumerevoli stelle nel firmamento texano: rappresenta indiscutibilmente un anello di quella catena che da Townes Van Zandt e Guy Clark ai giorni del suono Americana di oggi ha tracciato la via maestra del romanzo musicale americano, incarnando però al tempo stesso un momento di crescita e maturazione, pur nella continuità e nel rispetto del passato, con i canoni del più tradizionale songwriting al cofinne fra country, folk e rock'n'roll.

La figura di James McMurtry infatti è stata ed è tutt'oggi più complessa di quanto le apparenze lascino pensare: la sua "immobilità" stilitica, il suo attaccamento quasi maniacale ad alcune sonorità, hanno forse nascosto una personalità che pur sposando il lascito musicale della sua terra, l'ha integrata con elementi in buona parte carpiti al linguaggio rock urbano, così come si è sviluppato a cavallo fra i '70 e gli '80. La sua poetica è stata un intreccio affascinante e non così comune (per lo meno non al tempo dei suoi esordi, schiacciati negli anni del grunge e del verbo alternative rock ) fra le direttrici solitarie dei cowboy atipici venuti dalla polvere del Texas, i profumi (e le tragiche insidie) del vicino border messicano, il rock più operaio e non ultimo il taglio asciutto, cinico, il talkin' spietato di un Lou Reed, con il quale condivide peraltro una accattivante somiglianza nell'inflessione vocale.

 
 
:: Il capolavoro
 

It Had to Happen
[Sugar Hill 1997]

1 Paris // 2 Peter Pan // 3 For All I Know // 4 No More Buffalo // 5 12 O'Clock Whistle // 6 Sixty Acres // 7 Be With Me // 8 Wild Man From Borneo // 9 Stancliff's Lament // 10 Jaws Of Life

 

La ricostruzione paziente delle proprie origini di autentico storyteller ripartono da un approdo sicuro in casa Sugar Hill, indipendente di lusso del mondo roots americano: James McMurtry lascia i lidi dorati della Columbia per abbracciare di nuovo il sound degli esordi, parzialmente "alterato" dalle precedenti collaborazioni (peraltro riuscitissime nel tracciare la figura di un nuovo rappresnetante del cosiddetto heartland rock) con la coppia Mellencamp-Grissom. L'incontro con Lloyd Maines, vero factotum del circuito country texano, appare evidentemente come un ritorno fra mura accoglienti, ovvero sia alla formazione del songwriter e ai suoi indiscutibili punti di riferimento artistici. Scomparsi i feroci assalti della chitarra di David Grissom, questa volta il compito è caricato sulle spalle dello stesso McMurtry, il quale si rivela un eccezionale tessitore di ricami ritmici, di un stile asciutto e a tratti nervoso, con un lavoro che caratterizza l'intera scaletta del disco. Il suono viaggia sulle cordinate di un rock più essenziale e ossuto del solito, ma non per questo privo di intuizioni melodiche struggenti, dove l'anima del folksinger ha una sua preponderanza in passato leggermente sacrificata. Quelle radici texane tanto agognate (nel disco appare anche un oscuro omaggio all'outisder per eccellenza del country rock, Kinky Friedman, nella cover di Wild Man from Borneo) sono rielaborate con uno stile personale dove il motto pare essere "less is better". I risultati sono incontestabili a partire da Paris e Peter Pan, mentre For All I Know esalta il ruolo centrale di Lisa Mednick all'acordion e tastiere, caratteristica che insieme ad alcuni giochi ritmici segna tutto il percorso di It Had to happen. Non mancano evidentemente i soliti colpi bassi, fatti di ballate da crepuscolo e bassifondi, di pause acustiche che si sprecano e toccano il vertice del songwriting di McMurtry, fra le strepitose spirali di No More Buffalo e 12 O' Clock Whistle. Be With Me sembra ostentare il lato oscuro e malinconico della sua scrittura, mentre Stancliff's Lament possiede il passo coinvolgente di un mainstream rock dove la "strada maestra" è quella imparata lungo l'asse Springsteen - Mellencamp. Il rock'n'roll di McMurtry ha sempre avuto però un cuore roots più scontroso e carico di tensione, qui riassunto perfettamente da Sixty Acres, la quale si aggiudica anche il premio di testo più crudo e significativo del lotto. It Had to Be Happen dimostra di centrare il bersaglio mediando fra passato e presente: non possiede forse le canzoni migliori in assoluto del suo catalogo, ma si mostra come l'opera più completa e intensa di McMurtry, nella capacità di rinnovarsi pur nella sua fedeltà alle atmosfere elettro-acustiche tipiche di un filone stilitico.

 
:: Dischi essenziali
 

Too Long in the Wasteland
[CBS/ Columbia 1989]

La coraggiosa idea di produrre l'esordio di James McMurtry arriva al "piccolo bastardo" dell'Indiana John Mellecamp, evidentemente coinvolto dall'affine animosità musicale del texano, seppure messaggero di testi assai più letterari. Too Long in the Wasteland porta il marchio Columbia (altri tempi, altra industria discografica), ed è la significativa testimonianza, a ventisette anni (ma ne dimostra dieci in più sia nell'aspetto sia nella maturità di artista), di un autore dalle qualità di scrittura già pienamente compiute, il quale traduce in musica l'estremo fascino della nowhere land (o wasteland, fate voi) americana, popolata di perdenti e sognatori, a cui McMurtry, da buon figlio d'arte, sa donare tutta la dignità possibile dal punto di vista narrativo. Supportato da un cast d'eccezione, che comprende in sostanza l'intera band del citato Mellencamp (la chitarra istrionica di David Grissom e la batteria possente di Kenny Aronoff, oltre ai vari Mike Wanchich, Larry Crane e John Cascella), James firma un debutto che non fatica ricevere tutte le possibili attenzioni di una critica da qualche stagione all'asciutto di nuovi credibili troubadour, stuzzicando inoltre la fantasia degli estimatori del rock americana da strada, in un vortice di riferimenti ai classici del genere. Qualcuno scomoda immediatamente il fantasma di Lou Reed, per le somiglianze vocali e il talkin' un poco strascicato, magari perso per chissà quale scherzo del destino lungo i sentieri deserti e le small town del Texas. Il paragone vale anche per un sound in parte tradizionalista e quindi debitore verso il folk rock dylaniano e il country crepuscolare di Townes Van Zandt, ma attraversato da fremiti di rock urbano (Painting by Numbers il numero di apertura) e scheletrico, assai vicino in questo al cantore per eccellenza delle strade newyorkesi. Tra i momenti più emozionanti e rivelatori vanno se non altro ricordati i piccoli ritratti di Terry e Angeline, la stessa title track, una schietta Talkin' at the Texaco e una sintomatica Outskirts, canzoni sufficientemente esplicative di uno stile che in definitiva non cambierà mai nel corso della successiva carriera.

 

Candyland
[Columbia, 1992]

Il seguito di un esordio così apprezzato in termini di consenso critico non può non rappresentare un compito impegnativo. Confermando peraltro lo stesso staff produttivo e gli stessi musicisti (Mellencamp e l'amico Mike Wancich con Grissom libero di scorazzare in lungo e in largo), James McMurtry alza leggermente il tiro della sua miscela musicale, sfoderando in Candyland un carattere nerboruto, da rocker navigato, in grado comunque di contaminare il suo elettrizzante rock'n'roll da strada con i colori affascinanti del border, su tale linea di condotta molto affine al percorso compiuto negli stessi anni dal collega e conterraneo Joe Ely, guarda caso ai cui servigi siede lo stesso manico di David Grissom. Quest'ultimo domina musicalmente buona parte del disco e contribuisce ad allargare la sua piccola leggenda quale migliore sei corde del roots rock americano degli anni novanta, mentre McMurtry "sfrutta" volentieri questo binomio artistico facendosi rapire da ombre springsteeniane, quelle che aprono impetuosamente l'album in Where's Johnny e Vague Directions. Non bastasse, il seguito è una rock ballad da capogiro, Hands Like Rain, uno dei vertici in assoluto della sua carriera in termini di songwriting, oltre che uno dei volti di un disco tra i meno prevedibili della sua produzione, in grado di non abbandonare gli immancabili sconfinamenti nella terra messicana (la seducente Safe Side). Vivendo di contrasti, le scariche rock'n'roll arrivano travolgenti con la stessa Candyland e nelle inflessioni bluesy di Good Life e Storekeeper, mentre Don't wast Away e la conclusiva Dusty Pages allargano il raccolto di ballate acustiche intepretate con il giusto equilibrio fra passione e mestiere. Il disco subirà qualche rimostranza da parte della critica per una dipendenza troppo accentuata dai suoi "protettori" artistici, Mellencamp in prima fila, ma la personalità di McMurtry è troppo forte per restare imbrigliata nelle sabbie mobili della pura derivatività.

 

Saint Mary of the Woods
[Sugar Hill, 2002]

Passano quattro lunghi anni da Walk Between the Raindrops: McMurtry ci aveva abituato a sfornare piccoli capolavori di rock rurale con una certa regoralità. Potrebbe essere un pericoloso segnale di affanno o peggio ancora il riflesso di una profonda delusione per la reiterata indifferenza intorno alla sua musica. Saint Mary of The Woods lo riporta invece fra i suoi sostenitori con quelle tonalità al tempo stesso aspre e romantiche, che lo hanno trasformato in uno dei songwriters più affascinanti dalla desolata frontiera americana. Nel nuovo lavoro manca questa volta il marchio produttivo dell'amico Lloyd Maines, ma la differenza non si nota: James McMurtry fa tutto da solo e il piatto gli riesce anche meglio rispetto allo sfuocato predecessore. In studio si porta i soliti amici (Ronnie Johnson al basso e Lisa Mednick all'accordion), qualcuno ritrovato lungo la strada (David Grissom, che ricompare alla chitarra solista) ed altri nomi eccellenti che si aggiungono per l'occasione (l'ex Faces, ormai texano di adozione, Ian McLagan all'organo). Ciò che veramente conta è la presenza di dieci canzoni che suonano esattamente come vi aspettereste da lui: James Mcmurtry recita la sua parte, il suo immancabile rock desertico e cosparso di radici, le sue canzoni che si aggrovigliano intorno ai soliti accordi che frullano canzone d'autore e boogie sudista, e quella voce monotona, persa lungo le strade blu fra Austin e Lubbock. In St. Mary of The Woods lo stile si cristallizza e si perfeziona, non c'è alcuna traccia di novità, semmai un autore che ha fatto della poesia del confine un'arte sopraffina. Storie ai margini, popolate dai fantasmi dell'altra America, divise tra trepidanti rasoiate rock'n'roll (la cruda Lobo Town, Red Dress), country-rock da bettola texana (Valley Road), roots-rock da capogiro (il rifacimento di Dry River, a firma Dave Alvin) e ballate che oggi siamo soliti definire Americana e un tempo amavano chiamare, con un tocco di poesia in più, heartland rock (Broken Bed, Gulf Road). E' il cuore dell'America di periferia che ispira quest'uomo: lo si ritrova tutto, in forma strepitosa, nel convulso finale boogie-rock di Choctaw Bingo, splendido racconto familiare on the road.

 

Childish Things
[Compadre, 2005]

Scorrono le immagini di We Can't Make it Here: il cantautore texano sfodera una delle folk song più politiche degli ultimi anni, intendendo con il termine "politico" non tanto una semplice e magari anche un po' scontata invettiva anti-Bush, quanto piuttosto una spietata fotografia della miseria di una nazione, quella che dal fatidico 11 settembre al disastro umano di New Orleans ha perso la rotta. Nella mente resta soprattutto la narrazione di McMurtry, il resoconto di soldati mandati al macero, reduci senza casa, madri senza futuro con figli a carico, lavori sottopagati, odio razziale e quant'altro. Childish Things non alza le barricate alla maniera di Steve Earle, eppure è un lavoro molto più penetrante ed efficace nei suoi obiettivi. La disillusione raccontata nella stessa title track, la nostalgia dell'adolescenza e la ricerca di una innocenza perduta si nascondono dietro canzoni quali See the Elephant, Memorial Day, Charlemagne's Home Town, dando comunque una visione disincantata della terra in cui McMurtry si ritrova a vivere. Prodotto in casa, con i soliti fidati musicisti (la sezione ritmica con Darren Hess e Ronnie Johnson) e qualche ospite di riguardo (Joe Ely duetta nel rifacimento dello standard country Slew Foot), Childish Things è la prosecuzione e il miglioramento degli ultimi album: in studio tutto si traduce con più dovizia di particolari. L'impianto sonoro ricorda da vicino le scorribande elettriche di Candyland, pescando a piene mani in un rock'n'roll tagliente, da bar-boogie band (la cover di Old part of Town di Peter Case, la scalmanata Pocatello) e lanciandosi in trascinanti ballate che trasudano puro heatland-rock alla John Mellencamp (Bad Enough arroventata dalla chitarra solista di Grissom). C'è tempo anche per riflettere e decelerare, portare allo scoperto nuove soluzioni (violini, sax e trombone nel country rock corale di See the Elephant, un accordion e tanta poesia da border in Charlemagne's Home Town) e storie continuamente rivolte alla periferia (l'acustica chiusura di Holiday). James McMurtry conserva qui la dura scorza dello storyteller e porta il peso della migliore tradizione cantautorale americana: in Childish Things ci sono sufficienti indizi per considerarlo "il più sincero ed aspro songwriter della sua generazione". Parola di un fan d'eccezione, Stephen King.

 
:: Il resto
 

Where'd You Hide the Body
[Columbia, 1995]

Lo strano connubio fra James McMurtry e il prestigioso marchio Columbia, nonostante vendite risicate ed una fama che sa tanto di artista di culto, si mantiene stranamente in piedi per un terzo lavoro, Where'd You Hide the Body, che rispetta una cadenza ormai regolare nella pubblicazione. Forse già mentalmente scaricato dall'etichetta, alla fine di un primo percorso artistico, o forse semplicemente meno ispirato del solito, James non riesce a soddisfare pienamente tutte le attese (anche troppe) createsi intorno alla sua figura di ultimo, all'indomani della fragorosa svolta elettrica di Candyland. Prodotto in questa occasione dal quotato Don Dixon, manipolatore dell'indie pop americano, e accompagnato comunque dalla fedele chitarra di David Grissom, il disco mantiene alta la tensione dal punto di vista del songwriting, sempre attento alle storie marginali, alla terra americana più dimenticata, a certo isolamento sociale, ma pecca in parte nelle stesse scelte produttive, mancando di suoni e brani che riescano a rispettare la storia artistica di McMurtry. Tutto ciò nonostante la presenza di alcune tra le migliori canzoni del songbook del texano, nonché di una serie di ospiti (da Lloyd Maines a Stepeh Bruton) che tuttavia non sono in grado di sostituire la torrida carica rock fornitagli in passato dall'entourage di John Mellencamp. Nel contesto generale poco riuscito si fanno notare soprattutto l'inno di Levelland, altro punto fermo della sua carriera, Off and Running, Down avross the Delaware e la stessa title track, ma la bilancia tende pericolosamente verso il basso con il pasticcio funky di Fuller Brash man e la troppo lucidata Rayolight, o ancora l'inutile Late Norther. Trasformatosi definitivamente in musicista per musicisti, McMurtry non può far altro che chiudere bottega in casa Columbia, rifugiandosi lontano dall'indifferenza di una major, cercando riparo nel fiorente circuito roots e Americana di Austin. Da qui ha inizio idelamente la seconda parte della sua avventura discografica.

 

Walk Between the Raindrops
[Sugar Hill, 1998]

Sospinto dall'ispirazione in stato di grazia del precedente episodio, It Had to Happen, James McMurtry sembra volersi vendicare del tempo perduto con la Columbia, pubblicando ad un solo anno di distanza Walk Between the Raindrops, sempre in casa Sugar Hill. Il contatto ravvicinato con il predecessore tuttavia fa sentire il suo peso: i due dischi mostrano un rapporto stretto nei suoni e nell'impostazione produttiva, ma si distanziano nei risulati finali. Guidato per mano da Lloyd Maines, nuovo insostituibile sparring partner, McMurtry mantiene intatte le caratteristiche esteriori della sua musica, dividendosi fra ballate di chiara matrice country rock, un folk elettrico pulsante e fortemente ritmico, infine qualche rockaccio che odora di asfalto e benzina. Non si tratta di una copia carbone di It Had to Happen ma poco ci manca, seppure persista un costante desiderio di mettersi in gioco rivoltando gli stessi accordi, questa volta cercando soluzioni e arrangiamenti più originali del previsto. L'esito però è incerto e staziona a metà del guado: la ritmica orientaleggiante di Every Little Bit Counts, l'assolo lancinante di slide in Tired of Walking ed ogni singola parte di chitarra suonata da James nel disco tende a ribadire la sua peculiarità di musicista. Il tiro rock blues di Soda and Salt ed il ritmo country scalpitante in Airline Agent mostrano il volto più scanzonato dell'album, anche se la classe dell'autore non perde colpi soprattutto nelle immancabili ballate di turno: questa volta tocca a Fast as I Can coquistarsi un posto al sole, accoppiata vincente fra testo e musica, in buona compagnia con le limpide pennallate di steel che attraversano Comfortable e il passo classico di I Only Want to Talk With You, forse soltanto colpevoli di ricalcare uno stile con eccessiva diligenza.

 

Live in Aught Three
[Compadre, 2004]

Accreditato in condivisione con gli Heartless Bastards, Live in Aught-Three sembra più un omaggio alla propria band e allo sporco lavoro sulla strada. Ci sono infatti Darren Hess alla batteria e Ronnie Johnson al basso, insostituibili presenze degli anni indipendenti di James McMurtry, il resto è coperto solamente dal twangin' assassino delle chitarra del protagonista e da quella voce che narra la sua visione dell'America. Un trio che macina un roots rock poco fantasioso, per forza di cose costretto a spolpare fino all'osso le ballate elettriche di McMurtry, in questo non del tutto fedele alle qualità espresse nei dischi di studio. Un episodio insomma che sembra fare storia a sé, raccattando peraltro la sua scaletta dalle più contemporanee produzioni in casa Sugar Hill e Compadre, lasciando invece nel dimenticatoio gli anni alla Columbia. La differenza si sente. poichè quella spinta più squisitamente urbana qui appare soltanto a sprazzi nella riedizione di Too Long in the Wasteland e Levelland, mentre Sixty Acres e Choctaw Bingo macinano un rock'n'roll squadrato da bar band. Live in Aught-Three si rivela dunque un buon viatico per ribadire le qualità di strumentista di James McMurtry, ma lascia sul terreno un sound a momenti troppo scarno (le verbose Out there in the Middle e Lights of Cheyenne) per non rendersi conto di quanto fossero importanti le colorazioni di gente come David Grissom, Ian McLagan o Lloyd maines in studio di registrazione. Un momento di passaggio allora, in attesa che venga ripensato un disco dal vivo più ricco di sfumature

 

Just Us Kids
[Lightning Rod, 2008]

Quindici anni di resistenza nell'ombra, così James McMurtry sembra finalmente capitalizzare tutti gli attestati di stima nel frattempo ricevuti da colleghi e critica. Just Us Kids è esattamente il proseguimento delle conquiste ottenute con Childish Things, seppure McMurtry si schernisca nel definirlo un altro atto politico: accanto alla schiettezza di God Bless America (Pat mAcdonald must die) e Cheney's Toy, istantanee feroci sul crepuscolo dell'amministrazione Bush, si collocano questa volta canzoni e racconti con un taglio più trasversale, in cui la critica sociale si stempera in short stories popolate da personaggi alla ricerca di un appiglio, sperduti nel grande isolamento americano. James McMurtry ribadisce ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, di essere uno storyteller inappuntabile, passando attraverso i chiaroscuri di una relazione alla deriva (la lunga Ruby and Carlos) o tratteggiando ricordi e recriminazioni dal gusto amaro (la stessa title track). Fin qui l'idea che Just Us Kids sia come al solito un disco liricamente articolato e sempre affascinante non è affatto scalfita, nonostante non basti a salvarlo del tutto da qualche recriminazione. Dove pare fallire rispetto alla spontaneità del passato è proprio nella scelta maniacale di McMurtry, voce intrigante seppure monocorde, di contorcersi attorno ai soliti accordi, rischiando la deriva specialmente nella seconda ideale facciata. Se infatti l'eccitazione swamp rock di Bayou Tortous (con l'ospite CC Adcock alla chitarra) o lo scalciare boogie-honky tonk di Freeway View (al piano Ian McLagan) sopperiscono con tutto il cuore del rock'n'roll, da Hurricane Party in poi il disco sembra adagiarsi stancamente, tanto è vero che il brano in questione pare addirittura una fotocopia della Where's Johnny che apriva Candyland. Fra inutili brani strumentali (Brief Intermission), una tignosa The Governor e una You'd a' Thought (Leonard Cohen must die) da routine, poco rimane se non la slide dell'amico Jon Dee Graham in Fireline Road. Un lavoro parzialmente irrisolto dalla doppia facciata: quella al tempo stesso di un songwriter sopraffino e di un musicista frenato dai suoi limitati mezzi espressivi.

 
:: Riepilogo (discografia)



Too Long in the Wasteland (Columbia 1989) 8
Candyland (Columbia 1992) 7.5
Where'd You Hide the Body (Columbia 1995) 6.5
It Had to Happen (Sugar Hill 1997) 8.5
Walk Between the Raindrops (Sugar Hill 1998) 6.5
Saint Mary of the Woods (Sugar Hill 2002) 7.5
Live in Aught Tree (Compadre 2004) 6
Childish Things (Compadre 2005) 8
Best of the Sugar Hill Years (Antologia) (Sugar Hill 2007) 7
Just Us Kids (Lightning Rod 2008) 7

 

 


<Credits>