Come
tanti altri aveva percorso i sentieri della rinascita folk del Village,
il quartiere simbolo di una riscoperta culturale per la giovane America
dei primi anni Sessanta. Poi Tim Hardin ha cambiato subito
le carte in tavola, diventanto un oggetto misterioso, un folksinger
solitario e introverso, un eroe di culto che ha segnato, forse al
pari del solo Fred Neil, spirito affine, una stagione di "loser"
che cantavano con l'anima in mano
di Nicola Gervasini
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Il ritratto
Tim James Hardin
Born:
23 dicembre 1941 Eugene, Oregon, USA Died: 29 dicembre 1980 Los Angeles,
California, USA
La storia del rock è un carrozzone neanche troppo elegante
composto di poche e stereotipate figure umane: c'è la rockstar tutta "sex, drugs
and rock & roll" alla Mick Jagger, l'artista maledetto alla Jim Morrison, il pensieroso
intellettuale alla Leonard Cohen, l'anarchico genialoide alla Frank Zappa, e altre
ancora. E poi c'è il "loser", una definizione che si utilizza spesso nella storiografia
musicale, un po' per abitudine e forse magari senza neanche interrogarci sul suo
reale significato e la sua origine. Ad aiutarci nell'impresa è la figura di
Tim Hardin, protagonista suo malgrado della più tipica vicenda artistica da
loser, la più esaustiva, quella che ha cementato in un cliché la definizione.
Gli elementi che definiscono un loser possono essere i seguenti: il soggetto in
questione deve avere un gran talento, questo talento deve essere riconosciuto
dalla critica e dai colleghi, ma non dal grande pubblico, e questo mancato riconoscimento
deve coincidere con una insicurezza negli affetti e nella vita, una fragilità
che non necessariamente porta all'autodistruzione tipica dell'artista maledetto
(di certo Morrison o Cobain non erano definibili come dei "losers"), ma molto
più soventemente ad un triste isolamento dal mondo. La storia di Tim Hardin comincia,
come quella tutti i folksinger di prima generazione, al Greenwich Village
di New York, dove fin da subito Tim è una stella, conosciuto come il più blues-oriented
tra i vari eroi del quartiere come Dylan, Fred Neil o Eric Andersen, e soprattutto
noto per esser un parente del fuorilegge John Wesley Hardin, parentela in verità
mai appurata a quanto pare. Ma è trasferendosi a Boston nel 1963 che Tim incontra
Erik Jacobsen, un giovane produttore con l'orecchio svelto che ne intuisce le
grandi potenzialità. Jacobsen, che presto farà fortuna scoprendo i Lovin Spoonful
(una delle prime macchine da soldi del rock rurale americano) e più tardi diventerà
il produttore di fiducia di Chris Isaak, lo porta nientemeno che alla Columbia
Records, l'etichetta di Dylan, dove sosterrà un fallimentare provino. Alla fine
il suo primo contratto lo troverà con la Verve, un'etichetta jazz sempre
più interessata ad allargare il proprio raggio d'azione. Così quello che era un
semplice blues-singer si trasformò in un innovativo cantautore sfruttando due
grossi background della sua infanzia: da una parte l'educazione jazzistica impartitagli
dal padre, che si rivelerà decisiva quando il nostro cercherà una propria via
stilistica, dall'altro il suo amore adolescenziale per Hank Williams e il mito
degli "hobo" americani, una passione ancora controcorrente nei primi anni sessanta
quando la figura di Hank non era ancora stata sdoganata dall'"intellighenzia"
musicale. Country, blues, folk e jazz: quattro mondi che nella musica di Hardin
si sono incontrati e sono convissuti in piena armonia, tutti al servizio di un
autore unico e inimitabile, maestro di qualsiasi cantautorato intimista e introspettivo.
Nel 1969 la sua carriera era pronta a decollare: le canzoni contenute nei suoi
primi due album in studio spadroneggiavano nelle hit parade nelle versioni di
altri artisti, aveva pure conquistato una certa visibilità data dalla partecipazione
al festival di Woodstock, insomma tutto era pronto per il primo successo personale.
Finirà male invece la vicenda di Tim Hardin: nel 1970 investirà tutte le
sue forze emotive in un rovinoso album dedicato alla moglie, e gli inutili tentativi
della Columbia di rimetterlo in pista con album più accessibili aumenteranno solo
il suo crescente disinteresse per la scrittura e la voglia di un isolamento e
una autodistruzione che lo porterà a morire nel 1980 per overdose di eroina. Segnato
come un loser fin dallo sguardo, Hardin ha insegnato a intere generazioni di cantautori
come si raccontano le emozioni, e nessuno mai ha messo davvero in gioco tutto
sé stesso per farlo come ha saputo fare lui. E ancora oggi sulla sua lapide campeggia
l'epitaffio "He Sang From The Heart".
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Il capolavoro
Tim Hardin 3 Live in concert
[Verve Forecast 1968]
1.The Lady Came From
Baltimore/ 2. Reason To Believe/ 3. You Upset The Grace Of Living When You Lie/
4. Misty Roses/ 5. Black Sheep Boy/ 6. Lenny's Tune/ 7. Don't Make Promises/ 8.
Danville Dame/ 9. If I Were A Carpenter/ 10. Red
Ballon/ 11. Tribute To Hank Williams/ 12. Smuggin' Manss
Nel 1968,
in attesa di trovare le forze per registrare il terzo album in studio, Tim
Hardin, ebbe un ingaggio per alcune serate alla Town Hall di New York. Non
avendo una sua band fissa in città, Tim assoldò appena due giorni prima dei concerti
alcuni musicisti della scena jazz newyorkese: il pianista Warren Bernhardt
era un discepolo di Bill Evans e suonava da tempo nella band di Gerry Mulligan,
dalla quale provenivano anche il bassista Eddie Gomez e il batterista Donald
MacDonald, mentre il chitarrista Daniel Hankin era una giovane promessa
non mantenuta della scena folk (sarà al fianco di Karen Dalton per due album prima
di scomparire nel nulla…). Il pezzo forte della band era però il vibrafono di
Mike Mainieri, uno dei più grandi virtuosi dello strumento, che caratterizzerà
il suono di questo straordinario live. Non a caso nel 1982 Mark Knopfler dichiarerà
candidamente di aver chiamato Mainieri a suonare in Love Over Gold dei Dire Straits
solo sulla base del ricordo di questo disco. La registrazione del concerto, non
perfetta tecnicamente forse, ma ugualmente suggestiva, divenne il terzo disco
di Hardin e svelò al mondo tutte le doti di esecutore del cantautore. Innanzitutto
perché permetteva di ascoltare i suoi classici spogliati dai fastidiosi arrangiamenti
dei primi due dischi in studio, e in seconda istanza perché il concerto rappresentò
un importantissima pietra miliare nell'incontro tra jazz e folk. Sicuramente a
questo disco devono molto la svolta quasi free-jazz operata da un' altro loser
newyorkese, Tim Buckley, ma anche, sull'altra sponda dell'oceano, due attenti
ascoltatori come i chitarristi Bert Jansch e John Renbourn fecero tesoro di questi
arrangiamenti quando produssero con i Pentangle alcuni splendidi momenti di brit-folk
jazzato. Paradossalmente fu proprio l'aria di improvvisazione, evidente in alcuni
passaggi anarchici di una band che semplicemente suonava senza conoscere i pezzi,
che permise a Mainieri e soci di creare l'atmosfera perfetta per i sofferti vocalizzi
di Hardin. Il quale dal canto suo dimostrò di trovarsi a sua agio con accompagnatori
che stimolavano le sue interpretazioni, che a questo punto perdevano tutto l'imprinting
country-folk per creare un nuovo modo stralunato di cantare. Da questo momento
in poi Hardin insistè sempre sul fatto di voler essere considerato solo un jazz-singer
e in una intervista arrivò a declamare che "to know jazz is to know god". Il disco,
prodotto da Gary Klein, permise ad Hardin di pubblicare anche alcuni nuovi
brani, tra cui la splendida Lenny's Tune dedicata
a Lenny Bruce (che verrà riproposta da Nico in Chelsea Girl con un titolo leggermente
diverso) e soprattutto la spettacolare Danville Dame,
brani che avrebbero dovuto riempire un terzo album in studio per la Verve che
non vide mai luce.
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Dischi essenziali
Tim Hardin I [Verve Forecast 1966]
Il
disco di esordio di Tim venne prodotto da Erik Jacobsen, che riunì una
serie di session-men allora ancora sconosciuti, tra cui l'armonicista John
Sebastian (prossimo leader dei Lovin Spoonful) e il vibrafonista Gary Burton.
Alcuni brani sono ancore fortemente legati al blues che caratterizzava il suo
stile nei primi anni del Greenwich Village, come How
Long, Ain't Gonna Do Without e
Smugglin' Man, ma per il resto la vena da
cantautore di Hardin viene fuori alla grande nei brani più storici. Primo fra
tutti quella Reason To Believe che rimarrà
uno dei suoi pezzi più belli e conosciuti grazie soprattutto alla degnissima versione
del Rod Stewart di Every Picture Tells a Story (1973), che la porterà nei piani
alti delle hit-parade. Con un testo semplice e toccante che già evidenziava tutte
le debolezze dell'uomo nei rapporti umani, il brano è la prima vera testimonianza
della rotta personalità di Tim e già prima di Stewart fu proposta da veri blockbuster-artists
come i Carpenters (1970), Glen Campbell (nel suo Wichita Lineman del 1968, uno
degli album più venduti del decennio), una giovane Cher nel 1968 e ancora i Dillards,
Bobby Darin, Scott McKenzie, PeterPaul & Mary, tutti nel 1968. Più tardi il brano
si potrà trovare anche nei repertori di Johnny Cash (1981), Ramblin' Jack Elliott,
Marianne Faithful, Jackie DeShannon, e ne esiste pure una versione dei Jayhawks
del 1993. Altri veri capolavori dell'album sono l'iniziale Don't
Make Promises (anche questa conta varie versioni, ultima quella notevole
di Paul Weller) e Misty Roses (di cui ne offrirono
una versione pop i 5th Dimension). Il resto è rappresentato dai primi approcci
dell'autore con la canzone folk, brani delicati come Never
Too Far, Pat Of The Wind,
While You're On Your Way Hardin, It'll
Never Happen Again e Green Rocky Road.
Chiudeva il disco la sublime How Can We Hang On To A
Dream, una specie di lezione al mondo di come si possa fare un testo
struggente, ma per nulla patetico o lagnoso, sul classico argomento dell'abbandono
dell'amata. Probabilmente la canzone che meglio rappresenta il marchio di fabbrica
poetico di Hardin. A rovinare un po' la poesia furono gli arrangiamenti, a volte
appesantiti dagli archi o troppo leggerini e melodici, che strizzavano non poco
l'occhio al sound di Roy Orbison, senza nulla togliere ovviamente a questo infallibile
hit-maker dell'epoca.
Tim Hardin II [Verve
Forecast 1967]
Il
secondo album di Hardin uscì neanche un anno dopo ed è sicuramente la raccolta
di brani più importante della sua carriera, nonostante la produzione del duo Charles
Koppelman e Don Rubin avesse gli stessi difetti di sovrabbondanza del precedente,
anzi se vogliamo ancor più annacquati con soluzioni pop. Ad aprire il disco If
I Were A Carpenter, probabilmente il suo brano più noto, che lo rappresenta
in pieno anche come storia: in un ipotetico gioco di ruolo, Hardin si immagina
nei panni di un umile muratore che chiede alla propria donna di sposarlo e avere
dei figli con lui. Ma lì dove qualsiasi altro artista non solo sarebbe stato fiero
della propria umile condizione sociale, ma anzi avrebbe assunto il tono di chi
sta offrendo un'ancora di salvezza per emergere dall'immondizia (pensate solo
alla analoga dichiarazione fatta da un umile ma sicuro Bruce Springsteen alla
"working girl" di I Wanna Marry You), Hardin dimenticandosi che si tratta solo
di un gioco, ad un certo punto chiede incerto would you marry me anyway?, dimostrando
in una sola tentennante, speranzosa, persino patetica domanda tutta l'insicurezza
e la fragilità di un uomo. Il brano ebbe fin da subito un successo enorme. Nel
giro di tre anni finì in classifica nelle versioni di Bobby Darin e di Harry Belafonte.
Unanime le attestazioni di stima sia dal mondo del country americano (oltre a
Ramblin Jack Elliott (68), buon successo ebbe la versione di Johnny Cash contenuta
in Hello I'm Johnny Cash del 1969), che dal mondo del folk (Joan Baez). E uscirono
anche versioni più alternative, come ad esempio quella psycho-hard degli American
Blues (che per la cronaca erano 2/3 dei futuri ZZTop) nel 1967, o quelle più pop
dei Free Design e dei più fortunati Small Faces nel 1969. E ancora negli anni
successivi Leon Russell al culmine del suo effimero successo (1972), il Bob Seger
ancora sconosciuto di Smokin Op's (72), i Four Tops (73) fino alla buona versione
offerta da Robert Plant nel 1994 e l'ultima, la più recente, cantata dalla coppia
Sheryl Crow/Willie Nelson nel tributo a Rose June Carter. Per curiosità va citata
anche l'immancabile versione del beat nostrano con l'imbarazzante Se Io Fossi
Povero dei Rokes. Il resto del disco non era comunque da meno: Lady
Came From Baltimore è il primo brano dedicato alla moglie Susan, con
Hardin che stavolta si traveste da un ladro che si innamora della propria vittima.
Oppure l'incredibile poesia di Red Balloon,
cioè l'incontro dell'amata raccontato con gli occhi ingenui e carichi di sorpresa
del bambino che compra il giocattolo nuovo, e ancora Black
Sheep Boy, un altro titolo che rende evidente la mistica hardiniana
del loser, negli anni recenti ben riproposta da Pierce Pettis, Paul Weller e naturalmente
dagli Okkervil River, che ci hanno intitolato il loro album più cupo e introverso.
Oltre a questi quattro capolavori, il disco offriva comunque brani di altissimo
livello emotivo come You Upset The Grace Of Living When
You Lie, Speak Like A Child,
It's Hard To Believe In For Long. Da notare soprattutto la conclusiva
Tribute To Hank Williams, bellissimo e sentito
omaggio al mito di gioventù.
Suite for Susan Moore and Damion-We Are-One, All in One [Columbia
1970]
Dopo
una lunga serie di brani portati al successo da altri artisti, nel 1969 Hardin
entrò in classifica (per la prima ed ultima volta…) al cinquantesimo posto con
il singolo Simple Song Of Freedom, paradossalmente non un suo brano, ma una deliziosa
cover di Bobby Darin che cavalcava l'onda del pacifismo post-Woodstock dell'america
del tempo. La Columbia Records si decise allora a mettere sotto contratto
Hardin, al quale diede carta bianca per autoprodursi un album in casa. Era la
sua grande occasione, ma Tim la sprecò creando il suo disco più difficile e controverso.
L'idea iniziale era quella di un concept dedicato alla propria moglie e al figlio,
un atto d'amore di 40 minuti che Tim visse come l'appuntamento artistico di una
vita, e che realizzò registrando l'album nella sua casa/ritiro di Woodstock, piazzando
microfoni ovunque, in bagno, in camera da letto, qualunque posto per captare la
più spontanea delle manifestazioni d'amore dell'amata e del piccolo pargolo Damion.
La finale Susan ad esempio è una poesia recitata
da marito e moglie nella cucina di casa. Inutile dire che fu uno dei flop più
clamorosi dell'epoca, preso da due fuochi di un pubblico che lo ignorò completamente
e la critica musicale del tempo che lo giudicò "imbarazzante quanto entrare nella
camera da letto di due sposini durante la prima notte di nozze". Effettivamente
il tono di queste canzoni raggiunge sfere di vita intima che per l'epoca erano
davvero impensabili, il mondo era pronto ad ascoltare i giochi d'amore delle sue
prime canzoni ma le confessioni così personali di queste canzoni sembravano davvero
essere troppo per chiunque. La moglie Susan era talmente idealizzata che Tim le
affibiò persino un nome d'arte, visto che in verità il suo cognome era Morss.
L'iniziale First Love Song era una pura dichiarazione
d'amore (You are the first love song I ever sing, you are the only woman I evere
wanted to stay with…e via su questo registro), Everything
Good Become More True un ingenua canzone di speranza e di positività
terrena universale che cozza davvero con quella che sarà poi la sua storia. Il
gran momento centrale formato dalla accoppiata Last
Sweet Moments e Magician, insieme
alle splendide divagazioni strumentali di One, One,
The Perfect Sum, rimangono forse gli unici
momenti in cui Tim riuscì a raggiungere quell'ideale di "sentimento che si fa
arte" che perseguiva come una chimera personale. Ma l'album, in tutta la sua straordinaria
unicità, ancora oggi rimane irrisolto e frammentario (a causa anche dei vari brani
recitati), il frutto di una mente incapace di misura e giudizio, un capolavoro
nelle intenzioni ma non sempre nei risultati, comunque imprescindibile per capire
il suo percorso artistico.
Bird on a Wire [Columbia 1971]
Visto
che la suite per Susan Moore, toccò la posizione 129 di Billboard per una settimana
prima di sparire nel nulla, per il secondo album la major costrinse Hardin a seguire
istruzioni precise. Ma quello che entrò nei CBS Studios di New York nell'autunno
del 1970 era già un uomo diverso dal grande autore degli anni '60. Deluso dal
mancato riconoscimento di quello che riteneva un capolavoro, e, soprattutto, completamente
distrutto dall'abbandono della stessa Susan, stanca a sua detta di essere una
musa e non una moglie, Tim si fece manovrare come un burattino nella realizzazione
del suo album in studio migliore sotto il profilo musicale. Prodotto dall'esperto
Ed Freeman (produttore di Tom Rush e l'anno dopo dell'American Pie di Don
McLean), suonato da vari session-man di casa Columbia e dalla sua fidata band
di jazzisti, a cui venne aggiunto addirittura il Weather Reporter Joe Zawinul,
Bird On The Wire venne registrato in assenza di Tim, che fornì a Freeman
una lunghissima serie di registrazioni delle parti vocali da usare per il mixaggio
finale. Per il materiale si riciclarono alcune canzoni che Tim aveva già registrato
con Dave Briggs a Nashville nel 1968 (la bella If I Knew,
la piano ballad Moonshiner, la jazzata Soft
Summer Breeze) e addirittura qualche rimasuglio degli anni del Greenwich
Village (l'orchestrata Southern Butterfly).
Tim riuscì ad offrire due canzoni nuove, una Love Hymn
che chiudeva imponentemente il disco sugli stessi toni della suite per Susan e
la bella Andre Johray, parabola su successo
e decadenza inconsapevolmente autobiografica. Il resto venne completato con alcune
cover scelte senza grande fantasia, una A Satisfied
Mind di cui esistevano già parecchie versioni, una Georgia
On My Mind che Hardin cantò comunque con il giusto trasporto e la bellissima
Hoboin', brano attribuito erroneamente a John
Lee Hooker (era invece di Lightin' Hopkins), liberamente rivisitato nel testo
e nella musica da Hardin con un risultato davvero emozionante di folk-free-jazz.
Apriva il disco la title-track, il capolavoro di Leonard Cohen che Freeman arrangiò
come se fosse una ballata di Otis Redding, con fiati a perdere e una prova vocale
che ha semplicemente dell'incredibile. Il risultato, sebbene si senta l'assenza
del protagonista, è comunque un disco di altissimo livello che merita una attenta
rivalutazione.
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Il resto
Painted
Head [Columbia 1973] Nine
[GM/Antilles 1974] The
Homecoming Concert [Line LICD 1980]
Nel 1972 Tim Hardin decise di lasciare la casa di Woodstock,
dove ormai viveva praticamente da recluso. I tentativi di aiuto e le attestazioni
di stima dei tanti facoltosi vicini di casa (il vecchio amico Dylan, The Band)
furono vani, e anche Van Morrison tentò di coinvolgerlo nella genesi di Tupelo
Honey, ma senza grandi risultati. Tim si rifugiò in Inghilterra, dove la droga
gli veniva fornita da un programma di recupero del Sistema Sanitario Nazionale.
L'album Painted Head venne realizzato a New York da session-men
di casa Columbia e perfezionato in Inghilterra negli Apple Studios di Abbey Road
con l'aggiunta della facoltosa chitarra di Peter Frampton, già una star con gli
Humble Pie, e le parti vocali di Hardin. Interamente composto da cover, il disco
è un bel prodotto professionale con un Hardin che nonostante le pessime condizioni
riuscì a cantare in maniera più che convincente. Splendide le versioni di I'll
Be Home di Randy Newman e Yankee Lady
di Jesse Winchester, il resto viaggiava su binari più che degni che lo riportarono
a riabbracciare anche il blues degli esordi negli standard Nobody Knows You When
You're Down and Out o You Can't Judge A Book By Its Cover di Willie Dixon. L'album
comunque fu l'ennesimo disastro commerciale e rappresentò il naturale epilogo
del suo contratto con la Columbia. Nel 1974 uscì il suo ultimo disco in studio,
intitolato laconicamente Nine, e registrato in Inghilterra per la
GM records, con ancora cover (significativa la scelta di Fire
And Rain di James Taylor) e brani originali, alcuni in realtà risalenti
alle Nashville Sessions di molti anni prima (Shiloh Town),
altri finalmente nuovi (Rags And Old Iron
o Person To Person). Arrangiamenti pieni di
fiati, archi, cori femminili, una nuova via che non si allontanava molto dal sound
dei dischi di Joe Cocker, con una generale svolta verso atmosfere molto radiofoniche
e l'evidente tentativo di dare una ripulita al personaggio fin dall'improbabile
posa da gangster della copertina. Insuccesso ovvio e cd oggi reperibile a prezzi
esorbitanti, questa la prevedibile conclusione dell'operazione. L'epilogo di tutto
furono anni di dipendenza della droga in compagnia della moglie Susan, impietositasi
e volata in Inghilterra per seguire gli ultimi anni del marito. Che morirà il
29 dicembre del 1980, dopo la pubblicazione di un decoroso album dal vivo (The
Homecoming Concert), registrato nel gennaio dello stesso anno. Ovviamente
le versioni dei suoi evergeen, cantate da un uomo in evidente crisi, non sono
all'altezza dei tempi d'oro, anche se trasudano di tutta la tragica emotività
di un malato terminale. Rimane godibile il finale gospel del traditional Amen,
cantato con tanto di coro di voci nere, a dimostrare per l'ultima volta la grandezza
dell'Hardin cantante.
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Riepilogo (discografia)
Vista la storica
difficoltà a reperire i titoli principali della discografia di Tim Hardin, caldamente
consigliate per i neofiti sono due belle raccolte: Hang On To A Dream: The
Verve Recordings (1994) perché racchiude i primi due album, l'album di
inediti Tim Hardin 4 e ulteriori inediti risalenti al periodo blues degli esordi.
L'altra è la benemerita Simple Songs Of Freedom: The Tim Hardin Collection,
edita nel 1996 dalla Legacy, che oltre a recuperare il bel singolo del titolo
(altrimenti introvabile), recupera le straordinarie Nashville Sessions del 1968,
3 brani della suite per Susan Moore suonati dal vivo e una intelligente selezione
dei migliori brani tratti da Bird On The Wire e Painted Head. Questi due, insieme
al live Tim Hardin 3 recentemente ripubblicato in cd, costituiscono un percorso
obbligatorio per la conoscenza dell'opera di Hardin.
Tim
Hardin 1 (1966, Verve Forecast) 1/2
Tim Hardin 2 (1967, Verve Forecast)
This is Tim Hardin (1967, Atco - raccolta originalmente
non autorizzata di inediti periodo 1963/1964 - )
Tim Hardin 3 Live in Concert (1968, Verve Forecast)
Tim Hardin 4 (1969, Verve Forecast - altra collezione
di inediti, stavolta autorizzata dall'artista) 1/2
Suite for Susan Moore and Damion-We Are-One, All in
One (1970, Columbia)
Bird on a Wire (1971, Columbia)
Painted Head (1973, Columbia) 1/2
Nine (1974, GM/Antilles) 1/2
The Homecoming Concert (1980, Line LICD)
Principali raccolte The
Shock of Grace (1981, CBS Columbia - solo periodo Columbia) Tim
Hardin, Reason To Believe (Best Of) (1990 Polydor) Hang
On to a Dream: The Verve Recordings (1994, Polydor 521583) Simple
Songs Of Freedom: The Tim Hardin Collection (1996, Legacy /Sony )
Person to Person: The Essential, Classic Hardin 1963-1980
(2000, Raven) - bella ed esaustiva compilation australiana di 27 brani. 20th
Century Masters - The Millennium Collection: The Best of Tim Hardin (2002,
Polydor) - 11 brani, solo lo stretto indispensabile del primo periodo, sconsigliata.
Black Sheep Boy: An Introduction to Tim Hardin (2002
Universal International) - un'introduzione a cui manca If I Were A Carpenter risulta
ovviamente incompleta. Through The Years 1964-1966
(2007 Lilith) recente piccola compilation di nastri inediti, tra alternate-version
di brani noti e qualche chicca per collezionisti.