C'è
in giro un anomalo disco-tributo, We
Are Only Riders, in cui un gruppo di amici e conoscenti
riprende diverse canzoni di Jeffrey Lee Pierce rimaste
nei cassetti fino ad oggi. Ci sono tre ristampe, vendute a un
prezzo abbordabilissimo, di alcuni tra i dischi migliori dei
suoi Gun Club, il gruppo del quale, tra alterne vicende,
Pierce fu leader indiscusso. Ci sono le dimostrazioni di riconoscenza
e stima da parte di tanti artisti che in quella band non hanno
mai smesso di individuare una stella polare ispiratrice e motivante.
Ragioni più che sufficienti per ripercorrere la tribolata esistenza
di uno dei più geniali, sregolati e anfetaminici showman della
storia del rock.
A
cura di Gianfranco Callieri
::
Il ritratto
"Sono sceso
al fiume della tristezza / Sono sceso al fiume del dolore /
Nel buio li ho sentiti chiamarmi per nome": chi era Jeffrey
Lee Pierce e perché, nel 1982, già cantava cose simili,
sfoderando un magone da bluesman navigato e lo sguardo demoniaco
di chi, nemmeno venticinquenne, ha appena stretto un patto col
diavolo? Pirandellianamente, Pierce era uno, nessuno e centomila.
Molte personalità differenti che abbiamo conosciuto, molte che
non vedremo mai. L'uomo è stato un groviglio di contraddizioni
costantemente affacciate sull'abisso. L'artista, un talento
incommensurabile di anno in anno sprecatosi tra dischi sempre
peggiori e progetti sempre meno comprensibili. L'uomo, nato
a El Paso, Texas, ma cresciuto nella San Fernando Valley (sobborghi
bianchi e operai nella periferia est di Los Angeles), aveva
incendiato la scena del punk californiano, prima che con la
musica, attraverso una serie di comportamenti sopra le righe,
manifestando un'ossessione paranoica per la Debbie Harry dei
Blondie (fu il presidente del suo fan-club americano e cercò
sempre di assomigliarle, anche fisicamente), montando e smontando
formazioni durate lo spazio di un concerto (dai Cyclones ai
Creeping Ritual ai Red Lights) e infine vagabondando tra Europa
e Asia in un pellegrinaggio solitario e indecifrabile (dall'Inghilterra,
dove abitò fino al novembre del '94, venne persino espulso:
aveva tentato di sedare una rissa da bar sfoderando la spada
da samurai che portava sempre con sé).
Proprio quando, durante i primi anni '90, tutta una serie di
musicisti - Henry Rollins, Mark Lanegan, David Eugene Edwards
- svezzatisi al capezzale del post-punk di dieci anni prima
avevano cominciato a riconoscerne la grandezza e l'influenza,
Pierce era sparito di nuovo. Eclissatosi in Giappone, riprese
a bere e a drogarsi, e fece ritorno ormai completamente stravolto.
Racconta Mark Lanegan che proprio in quel periodo tentò senza
successo di mettersi in contatto con lui; nel frattempo, da
contatti comuni continuavano ad arrivargli notizie preoccupanti
e contraddittorie che volevano la salute mentale di Pierce irrimediabilmente
compromessa (numerose infezioni al fegato gli avevano procurato
una forma precoce di demenza) e il suo ricovero rifiutato da
vari ospedali, la cui diagnosi si ripeteva come un ritornello
sadico: "Non possiamo fare nulla". Finché, ricorda Lanegan,
non arrivò una telefonata da un numero sconosciuto dello Utah.
Era Pierce, che lo rassicurava e gli diceva di stare bene. Ehi,
mi hanno detto tutti che stavi per morire, replicò Lanegan.
Già, è quel che dicono sempre, concluse Pierce. Tipico. Tipico
di un uomo divorato dal proprio tormento che, pur soffrendo
di AIDS, cirrosi ed epatite, non ha mai smesso di azzannare
la vita con la ferocia cieca e inconcludente di un cane idrofobo.
La morte sopraggiunse appena una settimana dopo quella chiamata:
dopo un giorno appena di coma, il cuore e il cervello di Jeffrey
Lee Pierce si fermarono per sempre a Salt Lake City, il 31 marzo
1996.
L'artista conobbe un punto di svolta quando, folgorato da un
concerto di Bob Marley, decise di partire per la Giamaica. L'amore
per il reggae e la delusione per il prematuro irregimentarsi
della scena punk, che già nel '79 gli sembrava un gigantesco
catalogo di formalità, portarono Pierce a scandagliare nei recessi
della cultura americana, alla ricerca di una tradizione autoctona
che sapesse esprimere lo stesso misticismo e la stessa religiosità,
ancorché pagana, sperimentati in Giamaica. Quando Pierce si
imbattè nel blues del Delta, allora nacquero i Gun Club,
la band che, scaraventando Robert Johnson nell'abiezione delle
notti losangelene e infettando il country con allucinazioni
da peyote, stravolse per sempre il volto del punk a stelle e
strisce, esercitando una suggestione inesauribile presso Screaming
Trees e Gallon Drunk, Oblivians e Sixteen Horsepower, Handsome
Family e Painters & Dockers, Jason Ringenberg e Demolition Doll
Rods, Melvins e Alejandro Escovedo.
Formazione in sempiterno cantiere, i mai stabili Gun Club esordirono
col botto di due capolavori uno di seguito all'altro, si mantennero
in buona forma fino alla metà degli anni '80 (album solista
di Pierce compreso) e divennero, in seguito al primo scioglimento
(all'indomani di The Las Vegas Story [1984]) una teoria di indifendibili
disastri, solo in parte mitigata da un discreto, e malissimo
ascoltato, ultimo album e da una fiammata conclusiva del Pierce
titolare, che nel '92 fece ritorno ai primigeni demoni del blues
in compagnia di un fan inglese conosciuto da poco. Ma al di
là del precipitoso appannamento della loro fortuna artistica,
i Gun Club lasciano ai posteri un'eredità di dimensioni enormi
e il merito di avere combinato per primi, con parecchi anni
di anticipo sugli Uncle Tupelo, il matrimonio tra Carter Family
e schegge punk, tra l'abbandono angosciato del blues e la carica
esplosiva del rock'n'roll, tra la teatralità del glam (decisiva
nelle esibizioni live di un gruppo il cui leader si precoccupava
di salire sul palco "ricordando il più possibile Marylin Monroe")
e il severo isolamento del folk.
La loro musica, almeno nelle sue prime incarnazioni, è un lamento
selvaggio che aggiorna gli sgraziati impulsi erotici del country-blues
delle origini in un hardcore devastato e devastante, colmo di
doppi sensi, riferimenti a sostanze stupefacenti, rantoli e
ululati, oscuri riti esoterici e tradizioni stregonesche prelevate
dalle più truci bettole di New Orleans e poi stuprate dal fatalismo
ignorante degli stati contadini del Sud. Senza dimenticare,
naturalmente, la statura monumentale del performer Jeffrey
Lee Pierce, un Elvis sfatto e ubriaco che dal vivo brutalizzava
Hank Ballard, Billie Holiday e i Kingsmen (e in ultimo sviluppò
una passione viscerale per Jimi Hendrix, del quale era solito
proporre una straziante Little Wing). Dotato di una voce
splendida, di quelle che o si amano o si detestano, Pierce è
stato spesso paragonato a Jim Morrison, al quale lo legavano
indubbie affinità istrioniche. Se un paragone va fatto, quello
più calzante è tuttavia con un altro Morrison, l'irlandese Van,
di cui Pierce è sempre sembrato una controparte rabbiosa e debosciata,
sciamanica e autodistruttiva: la sua voce, come quella di Van
Morrison, sapeva librarsi in acuti squillanti e chiarissimi
per poi precipitare nelle profondità del blues, dimostrandosi
fragile e poderosa al tempo stesso (nonché sempre benedetta,
anche nei momenti più critici, da un autocontrollo miracoloso:
Sorrow Knows, l'unico brano salvabile del pessimo Divinity
['91], è forse la sua performance più toccante di sempre).
Pare che l'emorragia cerebrale rivelatasi fatale abbia colto
Jeffrey Lee Pierce in treno, mentre si recava a trovare il padre.
E se l'uomo non ha trovato neanche uno straccio di salvezza,
andandosene nel mezzo di quella squallida solitudine che l'aveva
accompagnato per una vita, l'artista ha goduto di una malinconica
quadratura del cerchio, forse per sempre riappacificato coi
fantasmi del passato e col ricordo di giovanotto biondo che
quasi vent'anni prima, con infinito dolore e infinita tristezza,
aveva preconizzato la propria fine nelle parole struggenti di
Carry Home: "Sono tornato
a casa / Attraverso così tante autostrade / E così tante lacrime".
:: Il capolavoro
Fire of Love
[Slash/ Ruby, 1981]
1.
Sex Beat // 2. Preaching The Blues // 3. Promise Me // 4. She's Like Heroin To
Me // 5. For The Love Of Ivy // 6. Fire Spirit // 7. Ghost On The Highway // 8.
Jack On Fire // 9. Black Train // 10. Cool Drink Of Water // 11. Goodbye Johnny
Da qualche
tempo Jeffrey Lee Pierce si aggirava tra i clubs di Hollywood in compagnia dell'amico
Brian Tristan (meglio noto come Kid Congo Powers), ma non aveva ancora
trovato il modo giusto per rovesciare la propria ossessione per il blues primigenio
sul corso del "nuovo rock" di quegli anni. Di certo l'assidua frequentazione di
Cramps e Blasters gli consentiva di sfoggiare una notevole conoscenza del rockabilly
più depravato, dei fumetti horror della EC Comics e dei bluesman del passato.
La svolta arriva quando Powers, col quale Pierce ha già scritto una For The Love
Of Ivy dedicata alla Poison Ivy dei Cramps, abbandona le fantasticherie del compagno
di bevute per unirsi proprio al gruppo di Lux Interior e della citata Ivy. A Pierce
rimangono la suddetta canzone e la fortuna d'imbattersi in Ward Dotson,
sopraffino chitarrista slide altrettanto edotto circa le radici bluesy dello strumento.
Reclutata la frenetica sezione ritmica di Rob Ritter (basso) e Terry Graham (tamburi),
i Gun Club sono pronti ad entrare in studio, dove, pronti a supervisionarne
le caotiche sedute d'incisioni, ci sono Tito Larriva (che si occupa anche del
violino su Promise Me) e Chris Desjardins, rispettivamente leaders di Plugz
e Flesh Eaters. Fondamentale soprattutto il lavoro del secondo, che costringe
il quartetto a suonare a una velocità quasi triplicata rispetto alle esibizioni
dal vivo e rende annichilenti, nonché definitive, le versioni di veri e propri
inni tra lerciume blues, insofferenza punk e lascivia voodoobilly che recano i
nomi di Sex Beat, She's
Like Heroin To Me, Fire Spirit,
Ghost On The Highway. Fire Of Love
è il massimo capolavoro della nouvelle vague del punk americano (1), e assieme
alla cruda desolazione metropolitana suggerita dagli X di Los Angeles ('80) e
al catalogo di scellerate scorrettezze contenuto in The Record ('82) dei Fear
idolatrati da John Belushi costituisce una trilogia irripetibile sul violento
processo di crescita di una gioventù che uccide il proprio padre - il rock'n'roll
classico e rootsy - per ritrovarne le radici più profonde, disperate e ossessive.
Ma rispetto agli altri due gruppi, il verbo dionisiaco dei Gun Club, costantemente
ammantati da una tristezza irrespirabile, spalanca un armadio di patologie, incubi
e comportamenti maniacali che lascia ancora oggi attoniti e indifesi. Martellanti
e feroci, i Gun Club di Fire Of Love deformano il blues primordiale di Robert
Johnson (Preaching The Blues) e quello fangoso
e countreggiante di Tommy Johnson (Cool Drink Of Water)
in un rituale orgiastico di chitarre fiammeggianti dove la voce di Pierce esplode
in ruggiti da bestia ferita e incontrollabile, così evocando un intero universo
di misteri e cerimonie segrete. A differenza dei pur grandissimi Cramps, il cui
compiacimento orrorifico si ispira più ai comics che alla vita vissuta, il Sud
retrogrado, sanguinario e ferino delineato nelle travolgenti cavalcate punk-blues
dei Gun Club prende vita in quella che sembra una corsa verso l'autodistruzione
maledettamente seria. E brucia di un fuoco talmente intenso da consumare, in senso
purtroppo non figurato, anche l'esistenza stessa dei suoi artefici.
Miami [Animal/Chrysalis,
1982]
1. Carry Home // 2. Like
Calling Up Thunder // 3. Brother And Sister // 4. Run Through The Jungle // 5.
A Devil In The Woods // 6. Texas Serenade // 7. Watermelon Man // 8. Bad Indian
// 9. John Hardy // 10. The Fire Of Love // 11. Sleeping In Blood City // 12.
Mother Of Earth
A distanza di un anno, e con in mano un nuovo contratto
firmato con la Animal di Chris Stein (Blondie), i Gun Club di un sempre più spiritato
Pierce sono pronti per ripetere l'incantesimo selvaggio del disco d'esordio. Miami,
attraverso un'ispirazione inalterata, rappresenta per il country & western quel
che Fire Of Love era stato per la tradizione blues: uno stupro claustrofobico
e condotto con brutalità animalesca delle coordinate di genere, un prolungato
miraggio vissuto ad occhi aperti in cui cowboy, indiani, steel-guitars e paesaggi
desertici diventano gli ingredienti di un nuovo teatro dell'orrore. La produzione
di Stein sgrezza gli spigoli del debutto, ma la limatura delle asprezze punk,
comunque ancora assai vivide, altro non fa se non esaltare il calore delle melodie
e la malinconia country di una ballata stracciona come Texas
Serenade. La forza d'urto del gruppo è in ogni caso dirompente: basti
ascoltare le bibliche devastazioni cui vengono sottoposti il rock anni '50 di
Jody Reynolds (The Fire Of Love), il blue-collar
dei Creedence Clearwater Revival (Run Through The Jungle,
definitiva e terrorizzante come non mai), i traditionals di cent'anni prima (John
Hardy). Il rock'n'roll sfibrato e fulminante di Sleeping
In Blood City, Like Calling Up Thunder,
A Devil In The Woods e Bad
Indian, in un crescendo ipnotico di sangue e omicidi, apparizioni demoniache
e violenze gratuite, porta la scrittura di Pierce a un nuovo zenith di epica degenerata.
Il salto definitivo verso una canzone d'autore irregolare e dolorosa è però contrassegnato,
fatta eccezione per l'indimenticabile tribalismo di una Watermelon
Man dove un concerto di voci e percussioni materializza un sinistro
rituale di possessione e delirio, dalla stupenda Carry
Home, che apre il disco con le accelerazioni solenni di una slide che
sanguina tormento e nostalgia, e dalla doorsiana, cupissima Mother
Of Earth, che lo chiude con una passeggiata country diretta verso un
inferno di ricordi e sconfitte.
::
Dischi essenziali
Death Party EP [Animal, 1983]
The Las Vegas Story Animal/Chrysalis, 1984]
Danse Kalinda Boom [Megadisc, 1985]
Dopo
due dischi appena, i Gun Club originari sono già smembrati, ma l'ispirazione di
Pierce brucia ancora. In Death Party, a partire dalla scorticata
poesia dylaniana di The House On Highland Ave.,
trovano posto le prime riflessioni sui propri errori e sulla propria dipendenza
("Non c'è più fuoco nei tuoi occhi di vetro / Nessuna sensazione quando sei fatto
/ Un giorno ti accorgerai / Di che razza di mostro sei diventato"), nonché il
blues macabro e disumano dell'epocale title-track e il punk-rock selvaggio di
The Lie. La formazione di Death Party, con
Jim Duckworth alla sei corde solista, Dee Pop alla batteria e Jimmy Joe Uliana
al basso, dura solo otto mesi. In The Las Vegas Story riappare Terry
Graham e fanno capolino Kid Congo Powers alle chitarre e le quattro stringhe di
Patricia Morrison. L'album è uno splendido esempio di mainstream-rock suonato
con sensibilità classica (in Eternally Is Here
e The Stranger In Our Town c'è pure la chitarra
di Dave Alvin) e malinconia accorata: da un lato, una torch-song di George Gershwin
(My Man's Gone Now) e qualche scamplo di ritrosia
acustica (Secret Fires), dall'altro il free-jazz
di Pharoah Sanders (The Creator Has A Master Plan)
e il r'n'r stradaiolo di Bad America e
Moonlight Motel. L'insoddisfazione cronica del leader prende il
sopravvento nella tormentata Give Up The Sun,
sei minuti di poema elettrico condotto dal feeedback di Powers dove affiora di
nuovo il fantasma di Jim Morrison. Una grande versione del suddetto pezzo la si
trova nel live Danse Kalinda Boom, unica testimonianza ufficiale
del periodo e unica incisione decente dei Gun Club dal vivo, insieme ad altri
pezzi molto muscolari e dilatati, con tutto il corredo di assoli, piroette e improvvisazioni
che ci si aspetta da una grande rock-band. Splendida la lunga versione dell'inedita
Gila Monster, New Mexico in medley con la
Preaching The Blues di Robert Johnson, materiale che lascia presagire la possibilità
di un Pierce più stabile (in quanto a carriera) e meno umorale (in quanto a cambi
di line-up). Ma a ben guardare, nelle liner-notes del disco è lo stesso Pierce
a definire Danse Kalinda Boom un omaggio "postumo" ai suoi Gun Club, sicché, si
deduce, il gruppo risulta nuovamente sciolto.
Jeffrey Lee Pierce
Wildweed
[Statik, 1985]
Ramblin' Jeffrey Lee With Cypress Grove & Willie Love [New
Rose/Solid, 1992]
Dopo
aver fatto fuori la terza band in poco meno di quattro anni, Pierce non poteva
non tentare l'avventura solista. Seguito da un poco commestibile Ep - Flamingo
('86) - di sperimentazioni elettroniche e battiti "disco", Wildweed,
con la sua memorabile copertina dove il nostro è ritratto in un remoto panorama
rurale mentre imbraccia un fucile a pompa, è un disco infarcito di splendide canzoni
ahimé in parte rovinate dagli arrangiamenti grotteschi e ritmicamente caricati
che tanto dilagavano all'epoca. Il rockaccio incalzante di Love
And Desperation, la durezza bluesy di Hey
Juana, il boogie indiavolato di Sex Killer
e le magnifiche ballads From Temptation To You e
The Midnight Promise, che rivisitano la tradizione
tramite eleganti intrecci elettroacustici, avrebbero meritato un suono più vivace
di quello che, nel complesso, rende Wildweed un disco notevole seppur inevitabilmente
datato. Merita un discorso a parte la straordinaria, stonesiana Sensitivity,
un razzo di puro rock'n'roll che inscena una rappresentazione di disperata solitudine
non indegna dei tempi migliori dei Gun Club. Senz'altro più riuscito il secondo
album da titolare di Pierce, che peraltro incide Ramblin' Jeffrey Lee With
Cypress Grove & Willie Love in un momento di totale debilitazione. Registrato
in Olanda con lo strepitoso chitarrista Tony Chmelik (cioè, in omaggio a un brano
di Skip James, Cypress Grove) e il batterista Simon Fish (Willie Love), il disco
è una celebrazione straziata e straziante del blues più arcaico e rurale, realizzata
senza far ricorso a nessun orpello, solitaria, rattristata e severa fino all'autolesionismo
quanto le coeve produzioni Fat Possum erano sgangherate e caciarone. Hardtime
Killin' Floor Blues (Skip James), Moanin' In The Moonlight (Howlin'
Wolf), Alabama Blues (Robert Wilkins) e Long Long Gone (Frankie
Lee Sims) galleggiano in una in una corrente di armoniche e distorsioni, gospel
e crudezze, frustate e carezze, rumorismi e parentesi acustiche che ferisce l'anima.
I brani autografi - incredibile a dirsi - sono tra i più belli mai composti da
Pierce: Stranger In My Heart possiede la nobiltà
del rock'n'roll che ricompensa l'amarezza e ammorbidisce le punture dei ricordi,
Go Tell The Mountain (meravigliosa) strapazza
l'ipnosi del blues alla Son House per deflagrare in una travolgente sparatoria
di wah-wah che crivella l'ascoltatore di rimpianti. Rimpianti per l'uomo e per
l'artista, come detto, che tutto quel dolore di trova a cantare; per l'uomo che
si intuisce esser vicino a sprofondare in una strada senza ritorno e per l'artista
che, dal buio dei propri patimenti, distilla esorcismi artistici di rara passione.
::
Il resto
Mother Juno [Red Rhino, 1987] Pastoral
Hide & Seek [New Rose/Solid, 1990] Divinity
[New Rose/Solid, 1991] Ahmed's
Wild Dream [What's So Funny About/Solid, 1992] Lucky
Jim [What's So Funny About/Solid, 1993] Early
Warning [Sympathy For The Record Industry, 1997]
Larger Than Live! [Last Call, 1998] The Life
And Times Of Jeffrey Lee Pierce [Retro Deluxe/Vibrant,
1998]
All'indomani
di Wildweed, Pierce riforma i Gun Club con la fidanzata Romi Mori (basso), Nick
Sanderson (batteria) dei Clock DVA e il fidato Powers. I quattro volano a Berlino
per registrare sotto la supervisione di Robin Guthrie dei Cocteau Twins, grande
fan dei primi Gun Club, ma il sodalizio non frutta nulla di clamoroso. Lungi dal
poter essere definito un brutto disco, Mother Juno presenta però
un'incarnazione della band sin troppo ripulita e pericolosamente simile, nelle
sonorità vellutate e mai davvero cattive, all'inutilità di tanti gruppi britannici
del periodo. I pezzi ci sarebbero anche, eppure, nonostante la chitarra obliqua
di Blixa Bargeld (Einsturzende Neubauten) sul power-blues incupito di Yellow
Eyes, l'epica sferragliante di Hearts,
Lupita Screams e Port
Of Souls sembra vivere di un'aggressività soltanto superficiale, che
lascia i demoni interiori del leader a sgusciare in sottofondo. Distrutto dall'ulcera,
Pierce non ha le forze per smontare di nuovo la formazione e così, tre anni dopo,
si ripresenta con un Pastoral, Hide & Seek indicato da molti quale
pieno ritorno alla forma. In realtà, senza nulla voler togliere alle suggestioni
d'autore di Emily's Changed, Another
Country's Young, The Straits Of Love And Hate,
The Great Divide o I
Hear Your Heart Singing, ascoltare dei Gun Club tanto "perbene", tanto
garbati nei tempi medi e quadratamente rootsy acuisce il rammarico per la perdita
delle tensioni originarie, qui annacquate all'eccesso in un'inutile ripresa dei
Jefferson Airplane di Eskimo Blue Day. Divinity, poi, segna
un capitombolo di quelli ingiustificabili: un doppio vinile che gira a 45 con
qualche canzone nuova che definire zoppicante è un eufemismo (sebbene le melanconie
jazzate di Sorrow Knows e lo scossone r'n'r
di Black Hole qualche brivido lo regalino),
due remix all'insegna del cattivo gusto e qualche stanchissima edizione live dei
vecchi classici. Ahmed's Wild Dream, uscito in America come Live
in Europe, è un album dal vivo di pura interlocuzione, senza infamia e senza lode.
Non fosse per una superba Little Wing e per una prima versione della fulminante
Go Tell The Mountain lo si potrebbe evitare senza patemi.
Tutt'altro
che secondario - sorpresa! - l'ultimo Lucky Jim, che nelle note
ringrazia Hilary Clinton (!), Gore Vidal (!!) e gli inservienti degli hotel di
Saigon (!!!), ed è l'ultima dimostrazione compiuta, e che valga la pena conoscere,
della pazzia dolente e visionaria di Jeffrey Lee Pierce. Tra dolorose ballatone
folkeggianti (Idiot Waltz, Anger
Blues, Day Turns To Night) e sferzanti
tempeste hendrixiane (Ride,
Kamata Hollywood City), Pierce si inventa il soul urbano da manuale
dell'incredibile Cry To Me e riesce nell'impresa
di portare a termine, tra mille difficoltà, un'altra, tagliente istantanea di
disagio e alienazione in formato rock'n'roll. Early Warning, doppia
raccolta di frattaglie live e provini incompiuti che esce in Inghilterra con titolo
modificato (Da Blood Done Signed My Name) e scaletta appena rimaneggiata, mostra
tutta il talento cantautorale di Pierce attraverso una serie di amareggiati country-rock
(An American Promise, Desire By Blue River, The Devil And The
Nigger) dall'incisione in ogni caso troppo amatoriale per poterne consigliare
l'acquisto. Stesso discorso per Larger Than Live!, concerto parigino
del '90 affrontato in accettabile stato di forma ma dalla qualità audio a dir
poco traballante. Il box quadruplo The Life And Times Of Jeffrey Lee Pierce,
un disco di "greatest-hits" ufficiali (che il successo, naturalmente, non l'hanno
mai conosciuto) e tre cd di materiale irreperibile altrove ("Shake Me Up Some
Punk-Blues! (Live 1980/1983)", "Some Killing Floor Blues (Live 1983/1984)", "Last
Roll Of The Dice! (Live & Radio Sessions 1985/1993"), si rivolge ai completisti
incalliti: a parte il fallimento dell'etichetta che l'ha pubblicato, e quindi
la rintracciabilità assai difficoltosa dell'oggetto in questione, i contenuti
dei cd 2, 3 e 4 sono integralmente desunti da cassette registrate clandestinamente
dal pubblico dei concerti (o dalla radio casalinga di chi ascoltava certe emittenti),
quindi vi lascio immaginare la fedeltà audio di quanto riprodotto.
DVD
Live At The Hacienda 1983/1984 [Cherry Red, 2006] Fire of Love [Cherry Red, 2007] Ghost On The
Highway [French Fan Club, 2008] Hardtimes Killin' Floor Blues [Choses-vues,
2008]
Vi lascio immaginare anche, stante quanto detto sulla mediocrità dei concerti
usciti a nome Gun Club, l'assoluto dilettantismo con cui sono stati realizzati
i dvd che li riguardano. Live At The Hacienda 1983/1984 assembla
due vecchie vhs della Visionary ("Live at The Hacienda" e "Preaching The Blues",
entrambe licenziate nel 1994) per 117 minuti di dvd che potremmo riprendere, meglio,
voi e io con un telefono cellulare. Le scalette, tuttavia, risultano notevoli,
e basterebbe la sola, delirante rilettura di Disco Inferno dal concerto dell'83
a giustificare il prezzo del biglietto. Idem con patate per Fire Of Love,
altri due concerti, uno di nuovo a Manchester e l'altro in Spagna, per dei discreti
Gun Club del periodo d'oro. Molto interessante, e altrettanto difficile da reperire,
è il rockumentary Ghost On The Highway - A Portrait Of Jeffrey
Lee Pierce And The Gun Club, diretto nel 2006 da quel Kurt Voss che, nel lontano
1987, realizzò insieme ad Allison Anders l'indimenticato gioiello indie Border
Radio (omaggio al noir interpretato esclusivamente da musicisti losangeleni: Chris
D., John Doe, Julie Christensen, Dave Alvin etc.). Ci sono interviste a Henry
Rollins, Lemmy dei Motorhead, Peter Case e altri, e una bella selezione di reperti
iconografici d'epoca (ma attenzione!: niente musica). Straziante, infine, il breve
(60') Hardtimes Killin' Floor Blues, sugli ultimi mesi di Pierce
a Londra. Henri-Jean Debon filma con scrupolo e senza alcuna adesione, o distanziazione,
emotiva, ma quando appare Nick Cave, che cerca di convincere Pierce a riprendere
il controllo della propria vita mentre questi lo fissa imbambolato e bofonchia
qualche monosillabo, è difficile trattenere la commozione. L'artista non si sa
dove fosse; l'uomo, con ogni evidenza, se n'era già andato.
::
Riepilogo (discografia)
Fire Of Love (Slash/Ruby, 1981)
10 Miami (Animal/Chrysalis, 1982)
10 Death Party EP (Animal, 1983)
8 The Las Vegas Story (Animal/Chrysalis,
1984)
8 Danse Kalinda Boom (Megadisc, 1985)
8 Mother Juno (Red Rhino, 1987)
6.5 Pastoral Hide & Seek (New Rose/Solid,
1990)
6 Divinity (New Rose/Solid, 1991)
4 Ahmed's Wild Dream (What's So Funny
About/Solid, 1992)
6 Lucky Jim (What's So Funny About/Solid,
1993)
7.5 Early Warning (Sympathy For The Record
Industry, 1997)
6.5 Larger Than Live! (Last Call, 1998)
6 The Life And Times Of Jeffrey Lee Pierce
(Retro Deluxe/Vibrant, 1998)
7
Jeffrey Lee Pierce Wildweed
(Statik, 1985)
7.5 Ramblin' Jeffrey Lee With Cypress Grove
& Willie Love (New Rose/Solid, 1992)
8.5
:: Le ristampe Districarsi nell'universo
delle ristampe dei Gun Club non è semplice: ne esistono moltissime e ognuna
ha qualcosa di diverso. Per un certo periodo ho cercato di seguirle tutte, e pur
non essendovi riuscito appieno (molto ancora mi manca) provo lo stesso a suggerirvi
quelle che reputo maggiormente esaustive, se non altro per quanto riguarda la
discografia ufficiale. Fire Of Love si trova facilmente, e qualsiasi
versione può andar bene. Il contenuto è più o meno sempre lo stesso, anche se
l'ultima edizione Slash (1993) e la ristampa francese targata Last Call (2000)
suonano appena più nitide delle altre. La seconda, inoltre, ha il pregio di ripristinare
la cover della prima pubblicazione francese su New Rose, quella con i guerrieri
mummificati, che per il sottoscritto rimarrà sempre la "vera" copertina di Fire
Of Love. Per quanto riguarda Miami, Death Party e
The Las Vegas Story, orientatevi sulle edizioni doppie licenziate
lo scorso anno dall'inglese Cooking Vinyl. Innanzitutto costano € 9.90 al pubblico,
il che non è male, e poi ognuna di esse contiene un concerto inedito. Tutti malissimo
registrati, è ovvio, ma il live abbinato a Las Vegas (Le Loft, Strasburgo, 20/11/1984)
è un ruggito di pura istintività che chiunque dovrebbe ascoltare almeno una volta
nella vita. Tutti gli altri album vanno cercati nella collana "9 Lives", emessa
dall'olandese Flow Records verso la metà degli anni zero. Purtroppo, invece dei
9 volumi promessi, la serie, causa fallimento dell'etichetta, si è interrotta
al capitolo 6, ma quanto emesso nel frattempo rappresenta senza dubbio l'edizione
più completa che i seguenti titoli abbiano conosciuto: Danse Kalinda Boom
(FR012-2), doppiato con un secondo cd di tracce soundboard registrate in Australia,
tra Melbourne e Geelong, nel 1983 (compresa una devastante rendition della Hello
Walls di Faron Young); Mother Juno (FR011-2), con un altro cd contenente
la versione alternativa (invero non imperdibile) dell'intero album; Divinity
(FR014-2), anch'esso doppio, con parte del concerto che verrà poi pubblicato integralmente
su Larger Than Live! e diversi broadcast radiofonici (impagabile e sbronzissima
versione della Ruby, Don't Take Your Love To Town di Kenny Rogers compresa); Lucky Jim (FR009-2), 2 cd dove all'album originale si aggiungono rarità
dal vivo e gli ultimi pezzi registrati in studio dai Gun Club, tra i quali il
traditional Be My Kid Blues (con Tres Manos degli Urban Dance Squad al
dobro!), gli Who di I Can't Explain e il Wilson Pickett di Land of 1000
Dances; Wildweed (FR008-2), cd singolo, con l'intero album e
metà dell'EP Flamingo; Ramblin' Jeffrey Lee (FR013-2), cd singolo
con l'aggiunta della "full-version" di Goin' Down, Mississippi Bottom Blues
del misterioso Kid Bailey (alcuni sostengono fosse il moniker solista di Willie
Brown, l'armonicista di Charley Patton), Ommie Wise (la famosa "broadside
ballad" sull'orfana Naomi Wise, ammazzata di botte perché incinta, cantata anche
da Bob Dylan) e due inediti, bellissimi, di Pierce stesso (In My Room e
L.A. County Jail Blues). Per ultimi, Pastoral Hide & Seek e
Ahmed's Wild Dream: il primo si può acquistare nella discreta edizione
della 2.13.61 Records di Henry Rollins (uscì nel '97 e conteneva praticamente
anche l'intero Divinity), il secondo, se proprio si deve, va preso nel doppio
vinile pubblicato l'anno scorso dalla Bang Records, che in termini di ristampe
viniliche del punk americano e australiano degli anni '70/'80 sta collezionando
un catalogo di tutto rispetto.
Nota (1) Se la prima
fase del punk americano, aperta dalle New York Dolls e fatta esplodere dai Ramones,
culmina in tre capolavori profondamente influenzati l'uno dall'altro e dalla New
York in cui prendono vita, cioè Blank Generation (1977) di Richard Hell & The
Voidoids, Young, Loud & Snotty ('77) dei Dead Boys e L.A.M.F. (sempre '77) degli
Heartbreakers di Johnny Thunders (il punk intellettuale e autoriale dei Television
o di Patti Smith meriterebbe una trattazione a parte), la "nuova onda" del movimento
si sviluppa tutta nella Los Angeles di due o tre anni dopo. La stessa Los Angeles
immortalata nel mai troppo lodato lungometraggio di Penelope Spheeris The Decline
Of The Western Civilization ('81), talmente importante da generare ben due seguiti
(interessanti ma mai così decisivi) e ricco di spezzoni live di Circle Jerks,
Black Flag, Fear, X, Bags, Germs e Catholic Discipline. Mancavano giusto i Gun
Club, che forse, già all'epoca, erano troppo folli e inclassificabili per finire
tra le maglie di celluloide di un documentario.