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The
Grateful Dead - a cura di Marco Denti - È stato un grande fan dei Dead, Kary Mullis, a rilevare il principio della reazione a catena della polimerasi, ovvero, per farla breve, la ricostruzione in sintesi del DNA. Oggi è materia data per scontata, ma all’epoca, l’impressione era che fosse andato vicino a scoprire il mistero della creazione, il segreto di tutto. Era il 1983, vinse il premio Nobel e con i Grateful Dead condivideva un’apertura mentale, un modo di essere, l’esigenza di una visione, ma soprattutto l’urgenza di un’alternativa, fin dal DNA. È il coraggio, prima, e la costanza, poi, nell’inseguire le possibilità dell’immaginazione, dell’inesplorato e dell’impossibile. È ciò con cui si amalgamavano i Grateful Dead, più di quello che suonavano, nelle speranze di una nazione e di un mondo diverso. Partivano da lontano, e arrivavano con un’ipotesi già velata di lutto. Nello stesso giorno dell’assassinio di JFK e della morte di Aldous Huxley le “porte della percezione” si sono aperte sulle ombre e sulle tenebre, ma piccoli filamenti luminosi di quelle idee e di quelle utopie sono sopravvissute allo scempio e sono maturate come semi nascosti in un territorio segreto e fertile. I Dead, che allora esistevano con un altro nome, suonavano rileggendo gli archetipi americani, con una percezione & una consapevolezza della musica che ha qualcosa di straordinario e, in prospettiva, era già allungata verso il futuro. Capire i Dead, e quello che ha ruotato intorno a loro vuol dire comprendere uno snodo fondamentale della cultura popolare occidentale del ventesimo secolo. Non solo nella forma poliedrica della musica, delle canzoni, dei concerti dei Dead, ma anche nello stile, quando i desideri dei sognatori vengono inghiottiti dalla brutalità, ma resta la consapevolezza che la speranza non può arrivare dal potere, dalla burocrazia, dall’esercito, dall’autorità. Quella perseguita dai Dead era chiamata da Aldous Huxley pura e semplice “educazione alla libertà”. Non
tutto era a fuoco, come scriveva Joan Didion in Verso Betlemme:
“San Francisco era dove l’emorragia sociale si stava spandendo
a macchia d’olio”. Nel suo reportage da Haight-Ashbury, il
quadro della situazione, è un po’ meno celebrativo e più lucido
del solito. L’epica della “summer of love” e dei suoi succedanei
mostrava un’incrinatura nei dettami made in U.S.A. (lavoro,
religione, armi) e i Dead erano proprio lì nell’epicentro
del terremoto. Metà partita di baseball e metà chiesa, come
ha detto qualcuno, non sono stati la più grande rock’n’roll
band del mondo (in questo gli Stones sono rimasti insuperabili
avendo coltivato la loro grandeur come un’ossessione), ma
di sicuro sono stati una delle realtà più originali, complesse
e articolate. Un’evoluzione significativa del concetto e dell’idea
stessa di rock’n’roll band: non avevano un sex symbol (Jerry
Garcia è quanto di più distante si possa immaginare) e
nemmeno l’attitudine a gestire le relazioni pubbliche a proprio
favore. Si sono identificati fino alla decadenza, quando i
sogni e i miraggi di quella stagione si sono rivelati senza
legami terrestri e incapaci di affrontare il mondo così com’è.
Tutta l’America è una questione di spazio, non a caso Tom
Robbins in Natura morta con picchio, la definisce un
“vibrante alveare”. Nonostante l’infinita natura del territorio,
i limiti sono palesi ed è lì che i Grateful Dead sono
spaziali, nel senso che aprono orizzonti, compresi un’intuizione
primordiale di America e un’idea in viaggio, un’intera festa
mobile. Hunter S. Thompson in Screwjack li definiva
“musica hillbilly della West Coast” e qualcosa c’è di fondo,
avevano cominciato proprio da lì e lì sono tornati mescolando
le radici di una nazione e quelle di un gruppo, l’evoluzione
e l’assenza della tradizione. I Grateful Dead sono stati una
“cosa” molto americana, insieme radicata nel passato e nelle
tradizioni, da Samson And Delilah (e le percussioni
dimostrano che il ritmo è il vero scopo nella vita dei Dead
e non solo) alla storia di Casey Jones che è zeppa
di archetipi americani, a partire dalla figura dell’eroe (che
non rispetta le regole). C’è
qualcosa di speciale, ed è incomprensibile a livello superficiale,
nell’attitudine dei Grateful Dead, che poi si esprime nella
loro musica. Emanano e respirano un’aria effervescente costruita
anche con gli strumenti. Se si parla di chitarra, Jerry
Garcia li ha portati ovunque, essendo capace di padroneggiare
un’enorme varietà di stili, ma dentro c’è una musicalità capace
di allargare le canzoni a dismisura, nell’idea di aprire gli
orizzonti. Questo è successo con continuità, nonostante i
cambi di formazione o dei singoli set o di ogni altra condizione.
È successo perché nelle canzoni partono da quel piccolo mondo
che racchiudono e diventano un’esplosione di idee. Un esempio
su un milione potrebbe essere la loro interpretazione di Not
Fade Away, un laboratorio di improvvisazione dove l’interplay
svela un modo di capire la musica che si sovrappone alla conduzione
free delle rispettive esistenze e dell’esistenza stessa del
gruppo. Not Fade Away poteva diventare una suite mostruosa,
così come la musica poteva diventare qualsiasi cosa. Come
diceva Bob Weir: “Il nostro approccio verso la musica parte
da un punto di vista jazzistico”. Si era capito. Questo vale perché i Grateful Dead sono concavi e convessi nell’affrontare le canzoni, nel senso che a volte le ricavano dall’improvvisazione musicale, soprattutto nelle elaborate introduzioni, e a volte diventano la scintilla per le interminabili divagazioni. Il minimo denominatore comune e la somma dei due aspetti diventa energia pura quando cominciano a macinare e non ce n’è per nessuno: davvero una grande, evoluta “morbida macchina” del rock’n’roll. Il groove, (sì, Dylan ha ragione) costante, è davvero il loro marchio di fabbrica e come direbbe William Carlos Williams, “solo la danza è sicura”. Il piacere fisico e strumentale è insito nel loro DNA e compreso nel prezzo, ma è soltanto l’aspetto epidermico ed è il frutto secondario di un modo di concepire la stessa musica, e un po’ anche la vita in generale: fluttuano nelle canzoni e il fatto che dal vivo avessero la loro vera espressione ha una logica fisica. L’ossigeno che respirano è lo stesso del pubblico, è utile ricordarlo. Lo studio di registrazione è claustrofobia, gestito come se fosse una necessità: la musica dei Dead è un mood, non ha né inizio né fine, avvolge e trascende le forme che ingloba, e vale ancora adesso quale che sia il Dick’s Picks che state ascoltando. Un flusso senza soluzione di continuità, ed è la dimostrazione pratica di quello che sosteneva Tom Robbins in Uno zoo lungo la strada: “La logica dà all’uomo soltanto quello di cui ha bisogno. La magia gli dà quello che vuole”. É un altro mondo, sì, ci voleva e ci vuole ancora.
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